La stanza di Fabiana Luzzi è uguale a quella delle nostre figlie. Il poster di Emma Marrone, il letto a castello di ferro rosso, i peluche, lo specchio, i trucchi. Contro l’armadio a muro che divideva con tre sorelle maggiori – Sonia, Sara e Marika – adesso si appoggia un padre sfinito. Barba sfatta, maglione nero. Per tutto il pomeriggio stringe le mani a un paese che, proprio come lui, non ha saputo impedire l’assassinio di una bambina di 15 anni.
«Ho fatto il possibile – sussurra senza riuscire a deglutire – non volevo che Fabiana vedesse quello là». Vengono a fare le condoglianze con gli occhialoni da sole e i jeans stretti stretti, le fidanzatine mute, gli sguardi bassi. Si avvicinano alla palazzina sotto un sole abbacinante. Vengono a dire: «E’ una cosa assurda. Non doveva finire così».
Al contrario: non poteva che finire così.
Quello là si chiama Davide, 17 anni. Girava con un coltello in tasca. E per farti intendere quali fossero le sue aspirazioni, usano questa perifrasi: «Lui non apparteneva proprio, ma si atteggiava da…». Da mafioso. Uno che a gennaio a Fabiana ha spaccato il naso a pugni, le ha fatto uscire il sangue dall’orecchio. Riempita di lividi. Per questo era stato denunciato. «Doveva chiedergli il permesso anche per andare a mangiare un gelato», raccontano gli amici in processione. Uno che dieci giorni fa ha cancellato il profilo Facebook comune perché non voleva che altri vedessero le foto della sua ragazza. «La trattava come un oggetto personale», dicono nel vento, appena usciti dalla casa del lutto. «Si atteggiava da boss. Pieno di sé. Curatissimo nei vestiti. Edonista e rissoso. Una volta, eravamo in spiaggia a Schiavonea, mi ha obbligato a cancellare il numero di Fabiana dal mio cellulare, perché solo lui poteva chiamarla».
E giù botte, minacce, umiliazioni. Ecco perché il padre della bambina, Mario Luzzi, lo aveva convocato più volte nel suo negozio di autoricambi: «Lasciala stare, ti prego. E’ piccola. Cosa diavolo stai facendo?». Come risposta, un anno fa, Davide l’aveva presa e portata fino a Bologna. Una settimana di fuga. Per far intendere chi comandava.
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