E siamo arrivati pure a questo. Al sermone inacidito, al ghigno sagrestano, alla maledizione digrignata fra bava e bile. Alla caccia della lussuria colpevole, della carne corruttrice, dell’alcova che dissolve virtù e anima. Uno quasi non ci crede. Con il diritto della Repubblica, i suoi apparati, i suoi palazzi, piegati ad annusare umori liquamosi, a sprofondare nelle pieghe del peccato. Un compiacimento livoroso e un cavillare leguleio a tessere la filigrana rugginosa e farlocca di un invasamento da portineria in tocco e pettorina. Da rimpiangere, come tesori perduti, ferocia domenicana e scaltrezza gesuitica.
Come se le pire purificatrici, l’Inquisizione di ogni luogo e tempo, i tribunali speciali, i processi rivoluzionari, non avessero avuto tutti un fondamento giuridico, formalmente legittimo. Come se il confine fra libertà e tirannia, imperfetta democrazia e compiuta tirannide non venisse infranto proprio da aule di tribunale invase dalla fazione, da un potere coercitivo, quello eterno, plumbeo statutario dei ceppi e della gogna, asservito ai demoni della nettezza ultramondana e superomistica. Come se tutta una secolare vicenda di accuse e punizioni, non avesse visto la legittimità formale, ciò che si è compiuto in nome della Legge, umiliare la civiltà dell’individuo esaltando la barbarie istituzionale, una prepotente ragione collettiva soggiogare la gracilità solitaria dell’errore.
I nostri peggiori incubi hanno il volto della norma giuridica.
Il pericolo si fa tanto più insidioso, quanto più norma giuridica e norma morale sembrano somigliarsi. Poiché la morale cristiano-medievale possiede un noto sostrato sessuofobico, e poiché le norme penali sulla prostituzione si prestano a letture improprie, che tendono a trasformare il peccato in reato e a riscuotere il demone di un’insondabile persecuzione dalla sua oscura caverna, bisogna tener sempre desta la vigilanza. E lo sfruttamento della prostituzione, come ogni reato, richiede il dolo, cioè la conoscenza di ogni elemento della condotta che si sta tenendo e la volontà di tenerla proprio con tutti quegli elementi.
Solo che anche la minore età è uno di quegli elementi della condotta che si devono conoscere e volere. Altrimenti non c’è il dolo. E sempre che “l’alcunchè” ci sia stato. Sempre che l’unilaterale pregiudizio spirituale e materiale e l’unilaterale vantaggio spirituale e materiale ci siano stati. Sempre che ci sia stato lo sgambetto psichico e il povero sia stato lo stupido e il ricco lo scaltro e non viceversa.
La distinzione, il muro di protezione dalla fregola espiativa, è quello che si è costruito in una lunghissima storia di sofferenze e di faticosissime conquiste. La morale fuori dal diritto, il peccato fuori dal reato, la tonaca lontana dalla toga. A favore dei più deboli: storicamente donne, liberi pensatori, e classi subalterne, tendenzialmente sottomessi all’interpretazione della morale, abusivamente resa “giuridica”, più confacente agli interessi di poteri o “potentati” egemoni.
Che le giovani donne passate al setaccio della Procura di Milano siano state protette e non esposte al dileggio di Boccadirosa, con quel soprannome putridamente vezzeggiativo che sorride mentre marchia d’infamia, e, letteralmente, sfruttate per un disegno investigativo platealmente fazioso e cupamente persecutorio, uno lo può dire solo se è cretino o un pessimo ruffiano.
Sì, è vero: pensare a vent’anni che la vita possa riempirsi unicamente di griffes, che possa risolversi in un’arrampicata verso una fissità esibizionistica e simil-glamorous, remota dalla buona abitudine delle letture, della riflessione, del sereno ritmo della giornata, del passo sicuro di sé, e votata invece ad inseguire l’inquietudine rapinosa e seduttrice della folgorante vittoria sulla paura di un presente ritenuto insulso, da conseguire con ogni mezzo e, in primo luogo, con l’uso intensivo del bello e del gusto corporeo, può non piacere; e, se e in quanto assume i tratti di un costume diffuso, deve preoccupare.
E, allora, dovrebbe indurre a proporre, persuadere, esemplificare. Come avvilisce, più che indignare, la constatazione che lo stordimento fallico occupi estesamente le energie e il tempo di un uomo di stato o di chi tale si crederebbe (sebbene buon ultimo di una palindroma e nutrita tradizione). Ma, nel primo caso, si lavora di parola e di studio e, nel secondo, di voto e di militanza agguerrita e tenace.
La manetta no. La gogna del peccatore carnale, del “piacere del Cavaliere” o di chicchessia, la lapidazione della complice fessura del diavolo, no. Bisogna ripeterlo: proprio ora. E, se non ora, quando?