Giulio Andreotti è stata l’Italia Repubblicana. E l’Italia Repubblicana è stata la figura più tragica, cioè più sospesa, lacerata e ferita nella storia degli Stati nazionali, da Carlo VIII in poi. Nata nell’impazzare di una guerra mondiale calda, vissuta e cresciuta fra gli urti e le durezze di quella fredda. Sui due fronti, schierati e feroci, i più potenti eserciti mai apparsi sotto il cielo.
Rinascemmo col Piano Marshall. Ma non fu gratis. In Sicilia, cominciammo a pagare già prima di Yalta. Fu la nostra clausola non scritta: la maggiore, la più violenta, la più esosa di quelle toccate all’Italia: Cosa Nostra avrebbe avuto rango institorio nell’isola. Noi eravamo un territorio socialmente ed economicamente marginale, ragionarono. Si poteva fare, ritennero. Il CNL sapeva. Il Parlamento della Repubblica pure. E convalidarono l’unilaterale mossa statunitense.
Infatti, Portella della Ginestra e i sindacalisti uccisi nel dopoguerra furono eccidi consumati mentre in Emilia Romagna turbinava il Triangolo rosso. La spartizione del sangue cominciò subito. Da lì, e per decenni, avremmo poi avuto centinaia di omicidi en plen air. Perciò, sapevano.
Certo che erano una manica di analfabeti e contadini mancati. Certo che poterono fare quello che fecero solo perché lasciati liberi di farlo. Più volte Falcone, morto da autorevole a vistoso membro dell’ultimo Governo Andreotti, morto quale autore dell’unica incriminazione per calunnia verso chi aveva accusato “la politica”, morto, per questo, anche insignito del titolo di protettore democristiano della “politica”, aveva predetto e auspicato che uno Stato consapevole dei propri mezzi l’avrebbe liquidata senza troppe storie. Consapevole in quanto libero di usarli, questi mezzi. Per questo, dopo la caduta dei muri, si diede a strutturare quella consapevolezza: aveva capito che lo Stato italiano avrebbe avuto di nuovo le mani libere. Come pure aveva capito, però, che questa rinnovata libertà doveva passare per le sue ultime Forche Caudine.
Ma, prima del ’89, Cosa Nostra godette della sua ammissione al Grande Gioco e, per lunghi anni, non la si potè toccare, se non con le Commissioni Parlamentari. Le voci di Pantaleone e Sciascia, come solo grandi intelletti sanno fare, svelarono la tragedia nel suo compiersi: non potevano ancora superarla.
Quando capirono che la pacchia era finita, gli “uomini d’onore” protestarono con una ferocia ancora convinta di essere forza propria. Scopelliti, Lima, Falcone e Borsellino, Ignazio Salvo, Roma, Firenze, Milano -le ultime Forche Caudine comprese e previste dai Dioscuri della Repubblica- furono l’apogeo bilioso e micidiale di mercenari che, privati dei drappi di Yalta, si scoprirono riesposti al nudo del loro secolare luridume. Molti, fra quelli che avversarono e diffamarono Falcone, per i quali Falcone era un “guitto” tale da far apparire il danzante De Michelis un campione di understatement, dicono che la pacchia non può essere finita e da allora cercano altrove qualcosa che giustifichi la loro petulanza in carriera.
Giulio Andreotti non fu un mafioso. E’ stato l’Italia Repubblicana nel suo ruolo più tragico, e più tragico benchè meno epico, negletto persino dalle clausole segrete dei trattati di pace.
Il P.C.I. sapeva di questo ruolo poco epico ma necessario di Andreotti. Per 27 volte, a partire dal 1969, fu determinante, in sede di Commissione Inquirente, nel “salvarlo” dalle accuse, volta a volta riflesso di quel ruolo. E d’altra parte la D.C. non si sognò mai, a partire dalla Procura di Roma, dove ebbe sempre un certo ascendente, di chiedere l’incriminazione, per “Intelligenze con lo straniero” o altri reati similari, dell’intera dirigenza comunista. C’era la guerra, che quelle incriminazioni avrebbe teoricamente giustificato. Una guerra vera, e tanto più insidiosa in quanto formalmente non dichiarata. Ma tutti si condussero con tragica sapienza. Sapevano che anche i morti siciliani, sempre troppi nel flusso delle ore, tutti i martiri schiacciati dal quel terribile Gioco Grande: Reina, Mattarella, La Torre, erano prezzo indicibile nel flusso delle ore ma olocausto sul piano del Tempo, erano le radici nascoste della Repubblica: il dissidio ancora inconciliabile e, perciò, tragico, fra il flusso delle ore e il piano del Tempo.
Le critiche di allora, poi confluite a sostenere “le accuse del secolo”, provenivano da un narcisismo rigido e parolaio, intriso di movimentismo facilone e incancrenito giovanilismo, incorniciato da scarse o non riuscite letture; sempre libero di trastullarsi col travestimento quacchero di princìpi inamidati e in fuga dalle pieghe del divenire, mentre “il potere borghese e i suoi complici” si stropicciavano e si macchiavano anche per permettergli quello stesso trastullo.
Gli atti degli uomini esistono nel flusso delle ore e lì sprigionano tutta la loro verità immediata. Il piano del Tempo, della Storia, su cui certi atti, di certi uomini, in un certo momento, per certe cause, staccandosi dal flusso delle ore si fissano, espone alcune speciali responsabilità. E su questo piano, le spiega, cioè gli toglie le pieghe. Senza questo spiegamento, che è un acquietamento, quelle speciali responsabilità, speciali per derivare da un ruolo reso necessario, rimarrebbero chiuse fra le pieghe, e nascosto rimarrebbe il loro reale significato, la loro definitiva verità.
Questa superiore dimensione della responsabilità è posta a fondamento della nostra civiltà. Oreste ha ucciso la madre, Clitennestra, perché aveva ucciso il padre e suo marito, Agamennone, che aveva ucciso loro figlia e sorella di Oreste, Ifigenia. Nel flusso delle ore, Oreste è un omicida, e dei più efferati. Le Erinni, divinità malvage (e cioè simbolo della Non-Verità, il Male per eccellenza) lo accusano; l’Areopago, cioè la comunità dei cittadini, non sa risolversi, i voti sono esattamente divisi fra condanna e assoluzione. Interviene Atena, divinità benefica e, col suo voto, Oreste è salvo. Ma Atena salva Oreste per salvare la comunità, che solo nella riconciliazione può sciogliere la catena di sangue e di vendette.
La vendetta, le Erinni, disconoscono il piano del Tempo e si chiudono nel flusso delle ore, dove Oreste è un matricida. Ma la vendetta, che non sa spostarsi sul piano del Tempo, non è Giustizia: è ottusa, cioè chiusa alla verità del Tempo. Dike, Giustizia, è invece Atena, che afferma la responsabilità di Oreste con sguardo che non trascende la catena del sangue e dei singoli, ma anzi li spiega uno a uno: Agamennone aveva ceduto ai suoi terribili doveri di Capo militare, Clitennestra, al suo cuore straziato di madre e di moglie umiliata, Oreste al dovere di obbedienza agli dei. E li riporta l’una a l’altro, consegnandoli tutti insieme all’equanime e pacificante virtù dell’assoluzione. Atena, la Giustizia, riscatta il Tempo dalla stretta delle ore.
La catena della contesa perenne è sciolta, e si riconosce che il suo sangue è servito a ristabilire la pace. Questo insegna Eschilo. Per le responsabilità di chi ha avuto grandi responsabilità e, perciò grandi meriti. Questo è stato Andreotti.
La mediocre ed ingrata sentenzuccia del “reato-fino-al-1980-prescritto”, nata a compensare, col suo pavido compromesso correntizio, il malcontento quacchero suscitato dalla sonante assoluzione in primo grado, rimarrà monumento alla sua stessa rachitica statura giudiziaria.