Con il sugo di pomodoro o con il pomodorino fresco e il basilico, con il pesto o con le alici, lunga e sottile oppure corta e colorata. Non importa quale combinazione si scelga, per preparare il piatto principe della cucina italiana. Purché sia il risultato dell’impasto di farina, sale ed acqua. Purché sia pasta. E’ un amore assoluto quello che lega gli italiani alla pasta, paragonabile solo allo stesso affetto nutrito per la pizza. Un amore mai venuto meno, anche nelle estreme difficoltà della grande e triste epopea dell’emigrazione italiana nelle Americhe. E capace di superare anche l’enorme barriera di una cultura alimentare agli antipodi. Secondo lo storico Harvey Levenstein, gli italiani sono stati in effetti il gruppo etnico che ha opposto maggiore resistenza agli sforzi dei “nutrizionisti” americani di amalgamare le abitudini alimentari alla popolazione statunitense. Tutto merito dell’identificazione del cibo con la famiglia. E tutto merito di tanti produttori che hanno saputo “esportare” cibo italiano nei vari angoli del Nuovo Continente, riducendo sensibilmente la dipendenza dal consumo in stile anglosassone.
Merito anche delle tante casalinghe italiane emigrate in America che paradossalmente consideravano “inferiore” la qualità della cucina proposta dagli statunitensi. Quella della pasta, negli Stati Uniti, è in effetti una storia che cammina a braccetto con i passi dei nostri conterranei sbarcati a Ellis Island. E se era difficile distinguere, sul finire dell’Ottocento, un minatore italiano ricoperto di polvere da un minatore turco o spagnolo, era però impossibile non capire quale fossero le baracche in cui vivevano gli stessi: bastava sbirciare dalle finestre o annusare l’aria per catturare l’inconfondibile presenza della pasta che bolliva in pentola. Conosciuta fin dai tempi dei Greci e dei Romani, la pasta ha percorso tutta la parabola storica della Penisola presentandosi in varie fogge e identificandosi con tutta la popolazione italiana.
La prima ricetta documentata sulla pasta risale al libro scritto da Martino Corno, cuoco presso il potente patriarca di Aquileia. Il “De arte coquinaria per vermicelli e macaroni siciliani" venne scritto intorno all’anno 1000 mentre un documento datato 1244 ed un altro del 1316 testimoniano la produzione della pasta secca in Liguria, indicandone l’uso ubiquitario in tutta la penisola italiana. Impastata per secoli con un faticoso lavoro di “piedi”, la pasta conobbe la definitiva “democratizzazione”con l’invenzione dell’ingegnere Cesare Spadaccini che sollecitato da Re Ferdinando II di Napoli, intuì l’importanza dell’aggiunta di acqua bollente alla farina fresca appena macinata e progettò una macchina in bronzo che imitava il lavoro umano.
La città di Venezia autorizzò Paolo Adami nel 1740 ad aprire la prima fabbrica di pasta italiana mentre tre anni dopo il duca di Parma, Don Ferdinando di Borbone, concesse a Stefano Lucciardi di Sarzana il diritto di monopolio per dieci anni sulla produzione della pasta secca – con "stile Genovese". Nella metà del diciannovesimo secolo alcuni artigiani della pasta di Amalfi aprirono a Torre Annunziata in Napoli un vero e proprio laboratorio industriale per la produzione di pasta e nel giro di pochi decenni numerosi miglioramenti tecnici permisero la nascita di una fiorente industria settoriale che poteva offrire un assortimento dalle 150 alle 200 forme differenti di pasta. La pasta accompagnò sempre il bagaglio dell’emigrante nelle Americhe: fisicamente e culturalmente. Molti italiani partivano senza ricchezza ma includevano sempre qualche confezione di pasta nelle loro sacche e nelle loro valigie di cartone. E furono diversi gli italiani che, raggiunto un minimo di benessere, intraprendevano la produzione di pasta sul suolo americano, puntando su un mercato che nel corso di più di 130 anni non ha mai conosciuto una vera e propria crisi. Considerato oggi il prodotto alimentare più presente sulle tavole del mondo e il cibo più amato in molti paesi, la pasta nei primi mesi del 2012 ha visto un incremento dell’8% il valore delle spedizioni all’estero che traina la ripresa del “Made in Italy” sui mercati internazionali, confermando l’industria italiana della pastificazione come prima al mondo. La storia della pasta italiana negli Stati Uniti è strettamente legata a Filippo De Cecco, il primo produttore a realizzare nel 1889 un impianto di essicazione artificiale ad aria calda che permetteva di produrre pasta in modo continuativo, senza limiti stagionali, distribuendola dal piccolo paese abruzzese di Fara San Martino in tutto il mondo. L’imprenditore abruzzese nel 1893 decise di partecipare alla World’s Columbian Exposition di Chicago ottenendo la medaglia d’oro e il diploma di merito “per la struttura superiore, il colore e la tenacità dopo la cottura” della sua pasta. Il successo di De Cecco diede il via al primo fenomeno di esportazione del “Made in Italy”, trasformando pastifici artigianali impegnati nella sopravvivenza commerciali in vere macchine industriali dell’export. Gli emigranti italiani negli Stati Uniti, in gran parte provenienti dalla realtà contadina, catapultati in una condizione di relativo benessere, recepirono immediatamente il modello di incentivo al consumo statunitense, orientandosi, però, su alimenti legati alla propria cultura. La tavola imbandita dai prodotti della propria terra divenne così il simbolo di un’operazione di resistenza all’assimilazione. Gli italiani emigrati, mangiando i cibi della propria tradizione alimentare, in certi periodi dell’anno e in occasione di particolari festività, evocavano il ricordo e la nostalgia per la terra d’origine cercando di combattere le frustrazioni causate dallo statuto di minoranza etnica. Furono in effetti proprio gli emigranti, in maniera più rilevante degli italiani che vivevano in patria, a far crescere e radicare le attività semi-industriali legate alla trasformazione dei prodotti tipici, che il mercato interno con scarsa probabilità avrebbe potuto mantenere in vita.
La pasta consumata negli Stati Uniti non identificò tuttavia un popolo unito ma marcò la differenza tra le cucine delle diverse regioni. Merito innanzi tutto della relativa abbondanza di carne, che permise di ideare piatti che nei paesi d’origine era impossibile preparare. “Qua mangiamo carne tutti i giorni!”, “La carne costa meno che il pane!”… scrivevano gli emigranti ai loro compaesani rimasti in Italia, dando inizio al grande consumo di pasta secca (fino ad allora la pasta veniva consumata essenzialmente a Napoli, Palermo e Genova, mentre i piatti più comuni erano la polenta – al nord – e le zuppe nel Meridione) e all’importazione di pomodori in scatola per pasta dall’Italia. Nell’alimentazione degli italiani negli Stati Uniti assunse grande importanza il pranzo della domenica: l’incontro di parenti ed amici rinforzava le relazioni familiari e mostrava il progresso nelle condizioni economiche divenendo essenziale nella salvaguardia della tradizione culinaria perché solo nel giorno festivo le seconde generazioni accettavano il ritorno alla cucina degli avi, assimilando nel contempo i gusti che durante il resto della settimana venivano accantonati in favore del cibo comunemente utilizzato nel paese. Quella che tutti conoscono come “la cucina italiana” venne realizzata in realtà proprio dagli emigranti che ritornarono al paese di origine: si erano arricchiti e oramai non erano più disposti a mangiare poco e male. Volevano mangiare carne, prendere caffè, bere birra. Non volevano mangiare come avevano mangiato in passato, bensì come si mangiava nel paese dove si erano arricchiti. Se l’Italia ancora oggi rimane la prima consumatrice di pasta al mondo, con i suoi 26 chili procapite (valore che tenderà paradossalmente a salire in conseguenza della grave crisi recessiva del nostro paese) seguìta a distanza dal Venezuela (13 chili a testa) e Tunisia (11,9 kg), gli Stati Uniti confermano un consumo di quasi 9 chili pro capite, in gran parte veicolati dalle tante famiglie di origine italiana, capaci di “insegnare” anche ad altre etnie il sapiente uso del manufatto simbolo (insieme con la pizza) della cucina italiana.
L’Italia produce pasta per 3,2 milioni di tonnellate seguita dagli Stati Uniti che si attestano sui 2 milioni di tonnellate annue. Oltre la metà della produzione nostrana (il 53%) è destinata ai mercati esteri. Un «primo» su quattro consumato nel mondo è fatto con pasta italiana prodotta da una delle 179 imprese (149 nel settore della pasta secca e 30 della pasta fresca) con un totale di circa 8.200 addetti. Un “settore” che alimenta innumerevoli attività che molte imprese italiane hanno impiantato all’estero esportando nel contempo le sofisticate tecnologie relative alle macchine di processo.
«La pasta – sottolinea Paolo Barilla presidente dell’Associazione produttori pasta – è un cibo ancestrale, come il pane, ha solide radici che affondano in una civiltà antica ma è al tempo stesso proiettata verso il futuro. È naturalmente semplice ed è un prodotto fondamentale per un’alimentazione equilibrata. Anche il modello produttivo è efficiente dal punto di vista della gestione delle risorse naturali e pertanto con un contenuto impatto ambientale».
Eppure, per questo straordinario giacimento gastronomico, immortalato nei film di Totò e Alberto Sordi e capace di denotare perfino un intero genere cinematografico (gli “spaghetti western”), la protezione commerciale è quasi nulla. Un paese fondato sulla pasta e costellato da DOP e STG in ogni settore alimentare, non riesce infatti ad avviare una efficace azione per tutelare il proprio simbolo alimentare. Su cinque piatti di pasta italiani venduti negli Stati Uniti ben quattro sono falsi con imitazioni o richiami a parole, colori, località, figure e denominazioni dell’Italia senza avere nulla a che fare con la realtà produttiva peninsulare. Un vero peccato per un prodotto che a Roma ha trovato anche l’onore di un museo (situato in Piazza Scanderbeg 117, ai piedi del Palazzo del Quirinale ed a due passi da Fontana di Trevi) e che rappresenta il primo simbolo del riscatto culturale per gli emigrati italiani negli Stati Uniti.