La moda strumento dell’ONU contro la povertá per aiutarla a raggiungere gli obiettivi del Millennio sostenendo lo sviluppo nei Paesi emergenti, soprattutto in Africa. Cosí Franca Sozzani, Editor in Chief di Vogue Italia è dal febbraio scorso responsabile del progetto “Fashion for Development”, che le è valso la nomina di Goodwill Ambassador delle Nazioni Unite.
Il progetto F4D, che punta a favorire l’accesso ai mercati internazionali e alle catene di distribuzione della moda di giovani stilisti e produttori africani e di altri Paesi emergenti, è stato presentato giovedí da Franca Sozzani al Palazzo di Vetro dell’Onu insieme all’ambasciatore italiano Cesare Maria Ragaglini, al Segretario Generale aggiunto per la partnership con il settore privato Bob Orr e all’inviato speciale per la malaria Ray Chambers.
Alla fine dell’affollata conferenza stampa all’Onu, abbiamo intervistato Sozzani che nell’industria della moda è tra le “opinion maker” piú influenti nel mondo.
Questo mese siete in edicola con una copertina speciale dedicata a Ban Ki Moon con il titolo “Rebranding Africa”. Il Segretario Generale dell’ONU, che lei ha intervistato, crede molto a questa inziaitiva per aiutare l’Africa. Ci spieghi l’iniziativa.
“La moda non è solo divertimento come si pensa, o non è solo industria. La moda ha mille possibilità . E’ qualche cosa che tocca tutti, perché è un sogno, perché è una maniera di evadere, di vedere delle cose che qualcuno immagina di poter portare in un certo modo. Quindi perché non usare la moda, ho pensato, per creare dei lavori in posti come l’Africa, dove a loro tempo avevano una grande tradizione e che poi hanno perso per vari motivi. L’hanno persa perché hanno anche venduto i brevetti dei loro disegni, i meravigliosi disegni africani che noi compriamo sono prodotti infatti in Olanda, quelli nigeriani li produce la Cina… Quindi tutto questo mi ha portato a pensare di dimenticarci quello che é il folclore del luogo ma pensiamolo come ad un posto dove ci sono giovani stilisti molto interessanti che possono produrre delle collezioni e che noi possiamo vendere. Noi dobbiamo diventare dei distributori perché altrimenti loro non sanno come e a chi venderli. Perché non hanno negozi, hanno al massimo dei mercatini. Quindi la moda deve trovare i laboratori, trovare le persone che producono, e quando tutto il pacchetto è pronto andiamo noi. Abbiamo giá fatto dei contratti con la Rinascente e altre grandi catene. Abbiamo contratti con grandi stilisti per fare collezioni ma che siano prodotte lá e poi esportate in Europa. E faremo lo stesso con l’America…”
F4D, Fashion for Development, è stata chiamata questa scommessa sull’Africa. Lei in conferenza stampa ha detto: se ce l’ha fatta l’Italia distrutta dopo la guerra a costruire la sua industria della moda, perché non dovrebbe farcela l’Africa…
“E’ quello che dico. La nostra forza sono state le famiglie, padre, madre, sorella, cugina, tutti facevano qualcosa per creare poi quella che è la nostra industria. Prendiamo i grandi gruppi, da Benetton a Maxmara… in realtà è una tradizione. Ma anche loro in Africa ce l’hanno , hanno questa tradizione familiare ma poi non hanno i mezzi per metterla insieme come industria. Hanno bisogno di qualcuno che l’aiuti a strutturarla. Noi abbiamo persone che vivono già là che sono brave e conoscono già il lavoro…”
Lei come esempio concreto della strategia voluta dal Segretario Generale Ban Ki moon per raggiungere gli obiettivi del Millenio contro la povertà, cioè coinvolgendo anche le imprese private. Ma secondo lei i paesi membri dell’ONU cosa dovrebbero fare per agevolare il vostro lavoro?
“Molto facile. I paesi devono tutti battersi affinché tutti i paesi che hanno bisogno, non solo in Africa, ma anche in Bangladesh, Vietnam… facciano in modo che non si paghino le tasse quando noi mandiamo lá i tessuti per produrre.
Ovviamente paghiamo le tasse di esportazione, giusto, ma loro devono aiutarci a fare entrare i tessuti e i pellami che loro non hanno per farli lavorare ma senza pagarci le tasse. Perché se mandando lá i materiali noi paghiamo le tasse, ovvio che dopo noi pretendiamo che loro lavorino ad un costo inferiore. Quindi se tolgono le tasse loro possono guadagnarci di piú . E noi dobbiamo fare in maniera che loro guadagnino di piú . Noi non possiamo andare lí con
l’idea che il lavoro costa poco, dobbiamo pagarli quel giusto che gli permetta di vivere una vita dignitosa nel paese in cui vivono”.
Alla conferenza stampa le é stato fatto notare come l’Africa sia un continente difficile per via della sua
istabilitá, le continue guerre…
“Io ho risposto che non si deve aver paura. Io sono andata in Nigeria in un momento difficile e nessuno voleva andare. Ho detto che invece si doveva, andare a parlare con il presidente. Perché dovremmo fermarci? La paura non deve fermarci, l’Italia non si è fermata quando ha vissuto momenti terribili della sua storia e cosí anche tanti altri paesi che sono andati avanti. Perché uno dovrebbe aver paura delle guerre e della malaria etc e fermarsi solo quando si tratta dell’Africa? Tutto quello che c’è di brutto perché è solo africano? Non è vero, per questo si deve andare avanti comunque”.
Quali case di moda sono state più sensibili a questo progetto e pronte ad aiutare.
“Tutte, da Armani, a Versace, Cavalli, chiunque è pronto ad aiutare”.
Tra qualche anno ci sará il Fashion Week in una capitale dell’Africa?
“Ci sono già, adesso il Fashion Week dell’Angola che si farà in Nigeria. Poi ci sarà la settimana in Sud Africa. Ma va subito spiegato che la creativitá va gestita. Perché se quando sfilano fanno una creativitá divertente ma irreale, poi non si può vendere. Io ho assistito ad una sfilata che è durata oltre cinque ore, sfilano tutti i ragazzi di Accra, nel Ghana. Alla fine ho detto quello che ho visto è terribile, ma non perché la sfilata era brutta, ma perché era invendibile. Mettetevi insieme e fate una collezione. L’hanno fatta e infatti l’abbiamo venduta subito!”
La moda può portare democrazia, diritti umani, libertà e far uscire dalla povertà?
“Certo, e sopratutto la dignità con il lavoro. Noi dobbiamo aiutarli a crescere e poi loro si devono rendere indipendenti. Quello è il sogno”.