Il clima di accentuata enfasi retorica che ha caratterizzato il dibattito politico americano nel corso delle ultime settimane, si può certamente attribuire all’inizio informale della campagna elettorale per le elezioni presidenziali di novembre.
Durante un discorso tenuto di recente di fronte ai direttori delle maggiori testate giornalistiche statunitensi, Barack Obama ha definito alcuni aspetti della manovra economica presentata dal deputato conservatore Paul Ryan come un caso più o meno esplicito di ’Darwinismo sociale’.
Il commento del presidente si riferiva al fatto che la manovra proposta dai repubblicani taglia, prevedibilmente, una considerevole porzione della spesa sociale americana, privando la parte più vulnerabile della popolazione di quegli aiuti governativi che svolgono ancora un ruolo fondamentale per le classi meno agiate e proteggendo, al tempo stesso, i ceti più agiati dal pericolo di un aumento della pressione fiscale.
La frase di Obama é stata prontamente ripresa da alcuni commentatori di destra come Jennifer Rubin la quale, dalle pagine del ’Washington Post’, ha scritto che accusare Paul Ryan di ’Darwinismo sociale’ equivale a dire che il deputato conservatore sostiene, in qualche modo, l’idea di una presunta ’supremazia razziale’ a dispetto del fatto che l’osservazione del presidente aveva una caratterizzazione puramente sociale.
Il movimento conservatore americano ha, tradizionalmente, un rapporto ambivalente con Darwin avendo costruito il suo messaggio ideologico proprio intorno a quel darwinismo sociale al quale il presidente accennava: una ’legge del più forte’ con la quale giustificare politiche economiche di sostegno alle cosiddette ’classi produttive’, basate su una sistematica ridistribuzione del reddito dai ceti meno abbienti a quelli più facoltosi.
Questa ridistribuzione viene esercitata attraverso un demagogico ridimensionamento del prelievo fiscale che, per la sua natura progressiva, favorisce i ricchi e si traduce in una conseguente riduzione di finanziamenti per programmi di assistenza sociale, istruzione, sanità e tutto ciò che, in quanto inerente alla sfera pubblica, ha valore soprattutto per le classi meno agiate.
E’ estremamente ironico che il darwinismo, le cui implicazioni biologiche ed evolutive sono al momento così violentemente attaccate e screditate dagli alfieri del fondamentalismo religioso repubblicano, venga cacciato dalla porta ma tacitamente riammesso dalla finestra per giustificare l’aspetto oligarchico delle politiche sociali della destra.
La tesi implicita in questo darwinismo sociale che piace tanto ai conservatori, è che il successo e l’avanzamento sociale degli individui non sono un compito proprio dello stato bensì una responsabilità dei cittadini stessi che, attraverso un’adeguata educazione, il proprio duro lavoro e il talento individuale, divengono gli artefici del proprio futuro. Quelli che ce la fanno vanno avanti, quelli che hanno difficoltà rimangono indietro e questa, che piaccia o no, è una fondamentale legge di natura.
In tutto ciò c’è sicuramente del vero. Il problema è che il concetto di ’successo’ proprio delle culture di destra in generale e di quella americana in particolare, riflette una mentalità strettamente affaristica, propria delle elìte industriali e finanziarie e del partito politico che le rappresenta.
Quando i repubblicani parlano di autodeterminazione e di successo personale come di una responsabilità primaria dell’individuo, ancora una volta intendono nelle sue varie gradazioni, questo successo; quello quantificabile in termini puramente economico-affaristici e che si raggiunge attraverso un conformarsi ad un unico e supremo modello caratteriale.
Stando a questa tesi, coloro che non riescono a stare al passo con questo processo di adeguamento hanno solo sé stessi da biasimare, non certo circostanze esterne come le condizioni sociali, economiche o culturali nelle quali sono cresciuti, né possono aspettarsi alcun aiuto dallo stato.
Analizzato in una più vasta prospettiva filosofica, tutto ciò rappresenta il riconoscimento implicito di quel presupposto elitario tipico della cultura della destra e cioè che il successo non é necessariamente un diritto per tutti ma costituisce piuttosto un privilegio riservato solo ad un certo tipo di individuo dotato di uno specifico assortimento di talenti.
A guardarlo da vicino quindi, lo pseudo-Darwinismo sociale repubblicano non è affatto un darwinismo bensì una forma di eugenetica. Il Darwinismo infatti si basa sul processo di selezione naturale di una pluralità di organismi in una pluralità di ambienti. In altre parole, le caratteristiche dei vari ecosistemi (deserti, foreste, oceani…) selezionano l’adattamento di specifici organismi alla sopravvivenza (cammelli, scimmie, delfini…). L’eugenetica invece afferma a priori la superiorità di un solo tipo di attributi fisici e intellettivi e sostiene la necessità di ’eliminare’ (intesa in questo caso nel senso politico di ’disincentivare’) tutti quelli che non vi si conformano in un processo che potrebbe definirsi di ’selezione artificiale’.
Ma ciò che conferisce forza e versatilità ad una società è anche e soprattuto la sua diversità culturale concepita come la legittimazione dell’eterogeneità di fondo della natura umana e come il riconoscimento che il compito di un governo è quello di salvaguardare i diritti e di tutelare gli interessi di tutti, non solo di coloro dotati di un certo tipo di personalità e di talenti altrimenti si corre il rischio di un appiattimento culturale dimenticando il contributo alla storia nazionale e mondiale di famosi ’disadattati sociali’ come Vincent Van Gogh, Isaac Newton, Leonardo Da Vinci, Ludwig Van Beethoven o Virginia Wolf, solo per citarne alcuni.