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July 10, 2011
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INTERVISTA/ Afghanistan anno zero

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 9 mins read

 In  ottobre la guerra degli Stati Uniti e della Nato in Afghanistan compirà dieci anni. Il conflitto più lungo della storia degli Usa è ad una svolta: le potenze occidentali pianificano il ritiro, ma cosa accadrà dopo? Valeva la pena combattere i talebani tutto questo tempo? Perché siamo andati e soprattutto rimasti in Afghanistan? Abbiamo posto queste e altre domande ad Amir Madani, esperto italo-iraniano di affari del Medio Oriente. Madani, i cui commenti  appaiono in publicazioni come Limes e l’Huffington Post,  è anche il coautore, con Germano Dottori, di “Afghanistan. Crisi regionale, problema globale” ( Clueb, Bologna 2011) una indispensabile analisi per capire i futuri scenari del conflitto. Lucio Caracciolo, autore della prefazione al libro,  ha scritto che Madani e Dottori offrono al lettore italiano “l’analisi più ricca e istruttiva oggi disponibile sulla guerra in Afghanistan”.

 

Nel libro si sostiene che l’Afghanistan non sarebbe stato occupato solo per eliminare Al Quaeda e i talebani, ma per conquistare il controllo delle sue risorse e la sua posizione strategica, passaggio cruciale dei più grandi progetti energetici… L’Afghanistan farebbe gola a Cina, India, Russia, Iran… e gli Usa non farebbero altro che curare i loro interessi e quelli dell’Occidente contro i piani di altre potenze regionali. La lotta al terrorismo sarebbe solo una colossale scusa? 

“In realtà il libro dice che tutti questi fattori concorrono , compresa la preoccupazione per la sicurezza. Ovviamente la sicurezza non è un fattore astratto, è legata ad un insieme di fattori concreti, prima di tutto l’economia”. 

Solo poche settimane fa il presidente Obama in un discorso ha delineato il ritiro delle truppe dal’Afghanistan. Si inizia a luglio, si finira’ nel 2014. Troppo tardi o troppo in fretta?

“Non si poteva continuare con la guerra senza limite di tempo e senza confini, una guerra guerreggiata e la guerra come cultura con alti costi umani e materiali, ereditata dall’amministrazione Bush. Obama con il piano di disimpegno dimostra di avere almeno una strategia che gli permette di ripresentarsi meglio anche all’appuntamento elettorale del 2012. Il disimpegno obamiano riguarda anche l’area del Mediterraneo per concentrarsi nell’area del Golfo Persico e il Pacifico e soprattutto all’interno. L’America deve concentrarsi all’interno e pensare di trovare un rimedio alla propria profonda e prolungata  crisi economica che ha portato il suo debito pubblico alle stelle. Il 22 giugno Obama ha pronunciato il più importante discorso della sua presidenza affermando: “America, è tempo di concentrarsi sul nation building qui a casa”. Ergo: ritiro dall’Afghanistan di qui al 2014 e dall’Iraq entro l’anno. Una piattaforma elettorale, certo ma con radici nella realtà dell’economia Usa. Si prende atto che un paese con un debito alle stelle non può sperperare mille miliardi di dollari in dieci anni di ‘guerra al terrore’ per ridursi a chiedere la trattativa a mullah Omar e i supporters altolocati  in Pakistan che hanno dato riparo a bin Laden beneficiando nel contempo degli aiuti Usa”.

Gli USA in questo momento spendono per la loro macchina militare 10 miliardi di dollari al mese in Aghanistan. Tutti questi soldi sicuramente hanno un ruolo nel sostenere la fragile economia del paese. Ma con il ritiro anche i soldi se ne andranno. Chi si sostituirá agli americani? 

“Che gli Usa si disimpegnino di tutto sembra poco probabile . Infatti gli Usa stanno cercando di convincere  Karzai di firmare accordi bilaterali che autorizzano anche basi permanenti Usa. Con un’eventuale disimpegno ci sono potenze regionali come Iran , Pakistan e soprattutto la Cina ma anche India e Russia e tutti gli altri. Con un probabile entrata al governo come ha affermato Amrallah Saleh cambierà solo la geografia di guerra. Si andrà avanti con guerra per delega the proxy war come dite voi in America . Ogni potenza delega una forza locale . Che economia ci sarà dopo il disimpegno Usa? Quella di sempre, cioè economia di guerra e di narcotraffico. L’Afghanistan produce oltre 90% dell’oppio mondiale”. 

Proprio il 6 luglio, nel suo rapporto al Consiglio di Sicurezza, Staffan de Mistura, il capo della missione ONU in Afghanistan, ha dichiarato che la transizione verso l’affidamento delle responsabilità di comando al governo di Kabul procede secondo i piani. "La transizione è come un treno e si muove avanti" ha detto de Mistura. Il governo afghano resisterà al ritiro americano?

“E’ difficile una previsione netta. Personalmente la penso come Amrallah Saleh che nella sua intervista con la BBC in lingua persiana Dari ha affermato: cambierà solo la geografia di guerra. Gli Afghani non vogliono di nuovo il regno del terrore dei Taliban. Due libri di Khaled Hosseini, scrittore Afghanoamericano, descrivono abbastanza bene di quel che son capaci i talebani che de facto sono bracci regionali di al-Qaeda, almeno le loro maggiori organizzazioni come Shura Quetta di Mullah Omar e Haqqani Network di Haqqani”.

"National Building": è forse un’utopia  farlo nell’Afghanistan delle mille tribù?

“Queste  cosidette tribù che in realtà sono delle etnie di antica storia, hanno convissuto storicamente in competitizione ma pacificamente. Sono state le grandi potenze a usare le diversità ai propri fini geostrategici. È emblematica la storia del colonialismo inglese in Afghanistan. Nella storia recente è stata la nefasta occupazione Sovietica ad aprire il vaso di Pandora del jihadismo e, a seguire, l’asse Saudita-Pakistano che hanno alimentato le guerre fratricide attraverso gli insegnamenti ultraortodossi del Wahhabismo coniugati con la logistica del Pakistan”.

Nell’analisi del libro si citano spesso antichi poeti della regione, come a vole r dimostrare che prima si dovrebbe conoscere e capirne la cultura per poter aiutare l’Afghanistan. Qual è l’errore di incomprensione più grande che gli occidentali hanno fatto finora?

“Di non conoscere e capire l’Afghanistan tuttora al quale vanno aggiunti un insieme di errori di valutazione. Un proverbio afghano dice: voi avete gli orologi, noi il concetto del tempo.  Non basta la teoria politica e tanto meno quella militare a poter capire questo insieme di etnie e popoli. Ci vuole la conoscenza della componente culturale e storica – nella versione di G.B.Vico –  per poter arrivare a capire la psicologia di un popolo. Inoltre non penso che qualcuno fosse andato in Afghanistan motivato dai  nobili principi di aiuto umanitario per costruire strade, ospedali, … o per togliere l’odiato Burqa alle donne afghane o costruire una democrazia British Style. Cito i poeti e pensatori afghani-Iranici (l’Afghanistan è uno dei maggiori centri della civiltà Iranica) per cercare di entrare nella loro testa, per comprendere il loro ragionare, loro approccio alla vita”. 

In Italia, ad ogni soldato morto, si chiede il ritiro, con i ministri leghisti in prima fila. Cosa ci guadagna l’Italia a rimanere? Quali sono gli interessi? Il presidente della Repubblica parla di rispetto degli impegni internazionali. Ci sono solo quelli in gioco?

“La presenza italiana in Afghanistan è basata su una non sincera interpretazione della costituzione italiana stessa che rifiuta la guerra. Impegni Internazionali vuole dire, voler essere presenti a qualsiasi costo, per ‘la scelta di campo’. Ma in considerazione della netta opposizione dell’opinione pubblica interna si cerca di sminuire il grado di presenza, coprendosi con le foglie di fico come dice saggiamente Lucio Caracciolo nella prefazione del libro. Si cerca di passare una missione di guerra addirittura come missione di pace, di ricostruzione. L’Italia in considerazione di un insieme di fattori non so cosa abbia da guadagnare se non appesantire il bilancio dello stato. Del resto la tradizione italiana del post guerra è basata sulla mediazione e non sulla partecipazione alle guerre. Una linea che ha reso Italia capace di mediare anche tra le due superpotenze (USA,URSS) nel periodo della guerra fredda. 

La politica estera italiana è dettata dalla sua stessa posizione geografica, che è al centro del Mediterraneo dove s’incontrano culture, popoli, civiltà… L’Italia dovrebbe essere come un ponte, il luogo d’incontro tra tutte queste componenti della civiltà umana, seguendo quelle linee che l’hanno resa un’attrazione universale nel corso dei secoli. La figura più rappresentativa di questa Italia è il Davide di Michelangelo che a differenza dei potenti come arma  possiede solo un piccolo sasso ma un grande senso d’umanità, buone maniere, alta  educazione civica. È presente senza essere appariscente, non è grandissima  ma è di grande bontà   ed è caratterizzata dall’estetica della mitezza e dalla poetica della moderazione. Un Davide che possedendo queste virtù è una attrazione universale, come il gentile sorriso della Mona Lisa di Leonardo. Infatti è l’Italia della cultura, della scienza, dell’arte, del lavoro, della mediazione diplomatica che hanno fatto grande questo paese e il suo popolo. Perciò la politica estera del paese dovrebbe basarsi meticolosamente su queste componenti per garantire quell’alto ruolo che spetterebbe all’Italia. Una politica estera basata sul principio della promozione del dialogo tra culture e civiltà per contribuire alla “pace perpetua” Kantiana. Portando avanti rigorosamente questa politica senza’altro l’Italia meriterebbe anche un seggio al Consiglio di sicurezza dell’ONU. 

Anche in Libia , non si sa veramente cosa sia facendo: sembra una guerra contro i propri interessi. Con la Francia e l’Inghilterra che cercano nuovi spazi ai danni d’Italia”.

Sorpreso che Bin Laden si trovasse in Pakistan? Il governo pakistano lo proteggeva? E perché?

“Amrallah Saleh uno dei più giovani eredi di Ahmad Shah Masoud  e responsabile dei Servizi di Sicurezza nel primo governo Karzai, l’aveva detto chiaramente a Musharaf e in presenza di Karzai che secondo  le nostre informazioni bin Laden si trovava in Pakistan mandando in furia Musharaf. Che bin Laden fosse in quell’area (ma comunque nell’area dell’operatività dell’asse saudita-pakistano) lo sto dicendo da anni, ma non pensavo che fosse sostenuto dalle così alte sfere del baricentro reale di potere in Pakistan che non è il governo democraticamente eletto ma è l’esercito,  le ISI (i servizi) e a Abbotabad a pochi kilometri da un importante centro miliare vicino alla capitale. Ciò vuol dire che bin Laden rimaneva anche dopo il suo formale siluro da parte dell’asse saudita-pakistano parte della squadra”. 

Le "rivoluzioni" in atto nel Nord Africa e in Medio Oriente, sono iniziate quando avevate già finito il vostro libro. Che effetto possono avere queste sull’Afghanistan? E sull’Iran? 

“La rivoluzione non avviene solo perché ci son sistemi autocratici e regimi di polizia ma perché il sistema sociale non regge più. Ma affinché la rivoluzione possa reggere e portare a un cambiamento ci vuole anche una mutazione, ed evoluzione culturale. Alle piazze arabe manca tuttora un Martin Luther King, un Gandhi, un Nelson Mandela. I regimi non reggevano e ciò –anche con l’aiuto di Obama come nel caso egiziano- hanno determinato alla liquidazione di alcuni autocrati ma i sistemi in fondo son rimasti gli stessi e i giocatori  quelli di sempre: l’esercito e i servizi (Egitto, Tunisia), dinastia (Arabia Saudita e vari sceiccati), Fratelli Musulmani (Egitto ed altrove), il partito-Stato (Siria), potere tribale (Yemen/Libia) fondamentalisti. Perciò è difficile una reale cambiamento  perché non ci sono i nuovi protagonisti. 

La protesta è partita su un piano generale, senza una progettualità, senza una nuova cultura ma essenzialmente come reazione alla crisi economica (rivolte per il pane)  ma la  repressione ha aggravato la crisi che era la causa della rivolta, accentuando la sofferenza delle categorie sociali meno abbienti e colpendo i ceti medi, protagonisti della piazza. D’altro canto anche i grandi players internazionali quasi tutti sostengono la restaurazione alimentata e capeggiata dall’Arabia Saudita e i suoi petrodollari che reprime la rivolta interna e manda le truppe in Bahrain. Più che una primavera sembra l’area di un inverno gelido in arrivo ma le masse sono oramai in piazza e sembra difficile che vogliano arrendersi facilmente al gelido inverno della restaurazione. Comunque più che le piazze saranno determinanti i protagonisti geopolitici regionali Turchia, Iran, Af/Pak, Arabia Saudita, Israele e quelli globali quali gli Usa, la Cina, l’India, Russia, gli europei in ordine sparso….

Per quanto riguarda l’Iran bisogna specificare che è un caso del tutto diverso dai paesi arabi anche se le rivolte delle piazze arabe sono partite ispirandosi anche all’Onda Verde movimento democratico iraniano nato a seguito delle controverse elezioni presidenziali del 2009. Iran è diverso per storia, per cultura, per quotidianità e tutto il resto. Anche se l’Iran come potenza regionale gioca il suo ruolo nei paesi arabi (vedi la Siria, Bahrain, Egitto dove sostiene alcune componenti dei  Fratelli Musulmani).  Per quanto riguarda l’Afghanistan gli effetti sono davvero irrilevanti”.
 


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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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