La cittadinanza è il primo, tangibile attestato di partecipazione a una comunità nazionale. Per molti arriva prima ancora di diventarne attivamente una parte, con la nascita. Per altri non arriva neanche dopo anni di studio e integrazione. Per questo trovo particolarmente giusta la nuova legge per la cittadinanza sostenuta dal Partito Democratico. Mi rende orgogliosa. Ci proietta fuori da un passato ormai anacronistico.
Approvarla farebbe giustizia di anni di umiliazioni subite da quanti, pure essendo a tutti gli effetti integrati nel nostro paese, nella nostra lingua, nel nostro tessuto sociale magari fin da molto piccoli, sentono di dover chiedere permesso per il solo fatto di esserci, di vivere, di aspirare a sentirsi parte della nostra comunità.
Una legge di grande importanza, dunque, con un’ambizione di portata storica in un mondo che cambia e che muta il senso stesso dell’essere italiani. Come ha sottolineato con grande efficacia il segretario del PD, Enrico Letta, “siamo noi che vogliamo introdurre lo ius scholae a essere dei patrioti, non gli altri che vi si oppongono”.
Ma ci sono almeno due però. Pur comprendendo la necessità di snellire il più possibile l’iter della legge, concentrandosi sugli aspetti legati allo ius scholae che è un obiettivo di grandissima civiltà, ho trovato particolarmente difficile da accettare che due dei temi sui quali ho presentato delle proposte di modifica siano stati accantonati. E non perché li abbia presentati io, ci mancherebbe. Ma perché si tratta di aspetti che riguardano direttamente la vita delle persone. Temi, per altro, affrontati in due specifici progetti di legge che ho presentato nella scorsa legislatura e riproposto all’inizio di questa diciottesima.

Il primo emendamento avrebbe consentito di superare un odioso impedimento procedurale vecchio oltre un secolo. Forse non tutti sanno che in base a una normativa del 1912 i figli di una donna italiana che ha sposato uno straniero prima dell’entrata in vigore della Costituzione, 1° gennaio 1948, non possono a loro volta ricevere jure sanguinis la cittadinanza.
Una discriminazione insopportabile nel 2022. Un’ingiustizia contro la quale persino la Cassazione è intervenuta, riconoscendo definitivamente il diritto di queste donne a trasmettere la cittadinanza. Si tratta dunque di un diritto ormai acquisito sul piano giurisdizionale, il cui accesso però è costoso e lungo da ottenere. E se per vedere riconosciuto un diritto bisogna spendere molto denaro e impiegare molto tempo allora no, quella cosa cessa di essere un diritto e diventa un privilegio per pochi e una privazione per molti. Avremmo voluto rimediare, ma non è stato possibile.
Nel mio emendamento non chiedevo altro che di adeguare la legge ai principi riconosciuti da tutta una serie di sentenze, alcune anche di rango costituzionale, e di rimuovere questo banale impedimento procedurale, consentendo di fare un notevole passo in avanti sia sul piano della parità di genere che tra i cittadini italiani residenti in Italia e quelli che sono all’estero, che non sono diversi dagli altri cittadini solo per il fatto di risiedere fuori dai confini nazionali.
C’è poi un’altra odiosa stortura del sistema della cittadinanza che riguarda chi è nato in Italia e dopo essere emigrato l’ha perduta perché ha dovuto assumere, per ragioni di lavoro e di vita, quella del Paese di residenza e oggi aspira invece a riacquistarla per una scelta identitaria e morale senza dover tornare in Italia per almeno dodici mesi, come prevede la legge attualmente in vigore, ma semplicemente presentando l’istanza di riacquisizione della cittadinanza direttamente al consolato di riferimento.
Anche questa rappresenta un’ingiustizia, un elemento di disparità ancora più insopportabile in quanto entra direttamente nelle scelte personali e di vita dei cittadini. Non aver cambiato le cose mantiene semplicemente più complicata la vita di quanti hanno scelto di portare la propria italianità nel mondo, spogliandoli del loro status e relegandoli in una condizione quasi di apolidi. Un brutto segnale di noncuranza.
Aver mancato, ancora una volta, questa occasione per dare risposte concrete ai connazionali è un vero peccato. Tanto più che gli italiani residenti all’estero si sarebbero aspettati un segnale di attenzione e di rispetto proprio nel momento in cui si parla di cittadinanza, che spesso rappresenta il legame silenzioso ma costante con l’Italia, il filo che tiene uniti tutti noi.