A volte il destino è crudele e, con perfidia, si diverte a umiliare gli sconfitti. Da dire però che il modo in cui la sconfitta viene accettata o contestata (che di sicuro non trasforma il risultato) rende chiaro lo spessore morale del vincitore e del vinto.
Oggi il Congresso a Camere riunite ratifica la vittoria elettorale di Donald Trump, esattamente quattro anni dopo che il 6 gennaio 2021 i suoi sostenitori, incitati dalle sue false infuocate accuse a Joe Biden per aver rubato le elezioni, presero d’assalto Capitol Hill nell’ultimo disperato tentativo di impedire la certificazione del candidato democratico alla presidenza.
Quattro anni dopo la seduta al Senato è presieduta da Kamala Harris, la candidata che Trump ha battuto a novembre. Harris, infatti, nel suo ruolo di vicepresidente è anche la presidente del Senato.
Non è la prima volta che un vicepresidente candidato alla Casa Bianca si trova nella singolare e scomoda posizione di dover ufficializzare la propria sconfitta alle elezioni precedenti. È successo ad altri quattro, compreso Richard Nixon, che ha perso la sua prima corsa per la presidenza nel 1960 contro JFK, e Al Gore, battuto nel 2000 da George Bush al termine di una lunga battaglia legale decisa solo dalla Corte Suprema in favore del repubblicano.
Ma a rendere particolarmente beffardo l’evento per Harris è il fatto che lei, durante la campagna elettorale, per indicare i pericoli e i rischi di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, ha più volte ricordato agli elettori i suoi tentativi per ribaltare una elezione in cui era stato sconfitto.
Today, I will perform my constitutional duty as Vice President to certify the results of the 2024 election. This duty is a sacred obligation — one I will uphold guided by love of country, loyalty to our Constitution, and unwavering faith in the American people. pic.twitter.com/w21HzdNxGs
— Vice President Kamala Harris (@VP) January 6, 2025
Gli americani hanno visto in diretta cosa è successo quattro anni fa quando i suoi sostenitori, tra i quali molti appartenenti a gruppi dell’estrema destra preparati allo scontro con giubbotti antiproiettile, spranghe e spray irritanti, malmenavano gli agenti e sfondavano le porte del palazzo. Immagini che hanno sconvolto l’America e il mondo intero.
Nell’assalto morirono quattro persone, tra le quali Ashli Babbi,t colpita dai proiettili di un agente. Nei giorni successivi e una settimana prima della fine del mandato di Trump, un Congresso ancora sotto shock approvò l’impeachment, il secondo, del presidente per incitamento all’insurrezione. Al processo, che si svolse il 13 febbraio, quindi a mandato scaduto, non si raggiunsero i due terzi dei voti dei senatori per la condanna, ma ben 7 repubblicani votarono insieme ai democratici. Da allora il Dipartimento di Giustizia ha incriminato oltre 1.400 persone per l’assalto a Capitol Hill e sono state finora 900 le condanne, alcune delle quali a pene pesantissime, come quella a 22 di anni a Enrique Tarrio, il leader del gruppo di estrema destra dei Proud Boys, considerato dagli inquirenti federali uno dei registi della spedizione.
Adesso, dopo l’investitura di Trump, con molta probabilità queste condanne verranno annullate dal momento che il presidente eletto ha sempre considerato i condannati per il 6 gennaio dei “prigionieri politici” e nel corso della sua campagna elettorale ha ripetutamente promesso che dopo il suo insediamento valuterà il modo per concedere la grazia.
“Una grazia – ha dichiarato al Washington Post Thomas Manger, il responsabile della polizia del Congresso – che i invierebbe un segnale sbagliato riguardo alla sicurezza delle forze dell’ordine. Come si sentiranno gli agenti di tutto il Paese se il presidente pensa che l’aggressione di un poliziotto non sia una cosa da condannare”. Manger guida i 2.300 agenti che oggi al Congresso sono in servizio durante la cerimonia di certificazione.
Prima e dopo la vittoria elettorale, Trump, proprio per cercare di minimizzare la gravità del tentativo insurrezionale, ha più volte promesso azioni di clemenza per i quasi 1.600 suoi sostenitori incriminati, da lui considerati suoi sostenitori ingiustamente perseguiti da un Dipartimento di Giustizia politicizzato. Minimizzando il loro ruolo, ovviamente, minimizza il peso delle sue responsabilità e accusando la sinistra democratica ha trasformato i razzisti rivoltosi violenti, in martiri patrioti.
“Per Trump, la grazia degli imputati equivarrebbe al capitolo conclusivo della saga del 6 gennaio – ha affermato alla CNN Julian Zelizer, professore di storia alla Princeton University e autore di un libro sul primo mandato di Trump come presidente – è sopravvissuto a tutte le azioni penali e alla sfida elettorale, ha vinto la rielezione e l’ha vinta anche con il voto popolare. Il perdono è la mossa finale per avere l’eterna fedeltà del popolo MAGA”.
In ogni caso, Trump è il primo presidente dai tempi di Grover Cleveland a lasciare l’incarico dopo una sconfitta elettorale e a “risorgere” vittorioso quattro anni dopo. È anche il primo a entrare in carica con precedenti penali dopo la sua condanna a New York.
A differenza di Trump, Harris non ha contestato le elezioni e ha invece accettato la sconfitta con dignità. Né lei né il presidente Biden hanno cercato di fare pressione sul Dipartimento di Giustizia, sui membri del Congresso, sui governatori, sui legislatori statali o sui funzionari elettorali per annullare il risultato. Non si è rivolta ai giudici con accuse infondate di brogli mai avvenuti, non ha ripetuto le folli teorie cospirative presentate dagli avvocati di Trump.
La vicepresidente non ha reso noti i suoi progetti per il futuro, ha solo affermato di voler rimanere attiva. In un messaggio video pubblicato su X questa mattina ha parlato dei suoi doveri costituzionali per la certificazione delle elezioni. “Il pacifico trasferimento del potere è uno dei principi fondamentali della democrazia americana – ha affermato – e come qualsiasi altro principio, è ciò che distingue il nostro sistema di governo dalla monarchia o dalla tirannia”.