Un risveglio da incubo per i pochi riusciti a prendere sonno. Una notte nerissima per tutti quanti gli altri.
Le prime luci dell’alba del 6 novembre hanno costretto funzionari e simpatizzanti del Partito Democratico a fare i conti con una Caporetto elettorale di proporzioni storiche, raccogliendo i cocci di ciò che rimane del progressismo a stelle e strisce.
Al termine di una campagna elettorale dai toni durissimi, che proprio in extremis sembrava essere alla portata della vicepresidente Kamala Harris contro l'”impresentabile” Donald Trump, si è tornati indietro di otto anni – quando l’outsider repubblicano sorprese tutti battendo l’iper-favorita Hillary Clinton. Forse stavolta è persino peggio, perché i democratici hanno subito la doppia onta di aver perso il voto popolare e ridotto sensibilmente la presa sull’elettorato femminile e sulle minoranze. E per di più in una tornata elettorale che i dem avevano fondato proprio su diritti delle donne e sulle accuse di xenofobia rivolte al guru MAGA.
Paul Maslin, decano dei sondaggisti USA, sostiene che Harris abbia fatto il possibile nonostante fosse quasi certamente destinata alla sconfitta. La sua campagna ha dovuto confrontarsi con una figura istrionica e polarizzante come quella di Trump, capace di sfruttare a suo favore la frustrazione nei confronti dell’amministrazione Biden, di cui la stessa Harris era componente di alto profilo. E dalla quale chiaramente non ha potuto smarcarsi, prestando il fianco alle facili insinuazioni di Trump sulla continuità Biden-Harris su temi impopolari come inflazione e immigrazione.
Alcuni osservatori hanno comunque puntato il dito contro la gestione della sua campagna, accusandone il team di aver bruciato risorse — oltre un miliardo di dollari — senza riuscire a ottenere risultati significativi tra l’elettorato. Lindy Li, membro del Comitato finanziario nazionale di Harris, ha criticato ad esempio la scelta di completare il ticket dem con il governatore del Minnesota Tim Walz, sostenendo che la vicepresidente avrebbe dovuto affiancarsi a un candidato più moderato come il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro, per distanziarsi dall’immagine di “liberal della costa ovest” che Trump ha abilmente sfruttato contro di lei.
Nel mirino è finito anche Jaime Harrison, presidente del Comitato Nazionale Democratico (DNC), che aveva sostenuto con forza la decisione di Joe Biden di rimanere in corsa fino a luglio, nonostante i dubbi sull’età e le condizioni fisiche e mentali.
Con Biden anatra zoppa fino a gennaio, e Harris ancora stordita per il KO elettorale, negli ambienti dem si respira aria di repulisti. Lo stesso Harrison, nominato nel 2021 proprio da Biden, si prepara a lasciare la carica l’anno prossimo, ma non prima di aver informalmente discusso con tutto lo staff del DNC cosa non è andato come previsto e come reagire in futuro. Ma quale futuro?
La presidenza del DNC gioca un ruolo cruciale nell’indirizzo politico del partito, specialmente in contingenze critiche come quella attuale. I 447 membri del DNC – soprattutto funzionari locali, deputati e senatori – saranno chiamati a eleggere il successore di Harrison entro aprile 2025. Tra i papabili c’è più di un volto noto, come quello dei governatori Andy Beshear (Kentucky) e Phil Murphy (New Jersey), dell’ex candidata governatrice della Georgia Stacey Abrams e di Ken Martin, a capo del partito blu in Minnesota.
Non sarà una scelta facile. Il prescelto dovrà infatti mettersi al lavoro per elaborare la strategia dem in vista delle elezioni di mid-term del novembre 2026, rispondendo alle esigenze della base progressista senza allontanarsi troppo dai moderati.
Che qualcosa si sia rotto nell’armonia interna del partito è opinione anche di David Sirota e Jeff Weaver. I due ex consiglieri del “radicale” Bernie Sanders hanno denunciato la distanza tra il DNC e le esigenze dei lavoratori, lamentando che il partito non ha dato abbastanza spazio alle istanze della classe media e dei lavoratori dal colletto blu.
Van Jones, ex consigliere di Barack Obama, ha criticato l’eccessiva presenza di celebrità ai comizi, a suo avviso avvisaglia dello scollamento dei dem con l’America che fatica a sbarcare il lunario. “Non abbiamo bisogno di concerti — ha dichiarato —. Vogliamo persone che vadano a bussare alle porte, che siano in prima linea”.
Chi sono i “traghettatori” dem
La delicata fase di transizione post-elettorale nelle fila progressiste spetterà in primo luogo proprio al DNC.
Joe Biden non ha più alcun potere formale su di esso e non avrà un impatto diretto sul processo che guiderà il partito verso le prossime elezioni, anche se l’influenza politica di fatto dell’inquilino della Casa Bianca – come quella dell’ex presidente Barack Obama – potrebbe rimanere forte.
Kamala Harris, pur essendo la candidata presidenziale scelta dal DNC, ha fallito e, di conseguenza, è decaduta anche la sua posizione di leader “naturale” del partito. Per la vicepresidente si profila sostanzialmente un doppio scenario: il primo la vede emulare Trump, che sfruttò la sconfitta (mai riconosciuta) del 2020 per lottizzare il Partito Repubblicano a sua immagine e somiglianza in vista del vittorioso ciclo elettorale 2024.
La seconda e più probabile ipotesi è invece una rinuncia a future ambizioni presidenziali, lasciando campi libero alla “nuova generazione” dem. Tra i nomi più caldi il governatore progressista della California Gavin Newsom (57), la collega moderata del Michigan Gretchen Whitmer (53 anni), e il governatore della Pennsyvlvania Josh Shapiro (51 anni).
Attualmente la giunta esecutiva del DNC è composta dal presidente Jaime Harrison, affiancato da tre vicepresidenti: oltre a Gretchen Whitmer, la senatrice Tammy Duckworth dell’Illinois e il lobbista ispanico Henry R. Muñoz III. Gli altri membri con diritto di voto sono il fundraiser Jason Rae (segretario), l’imprenditrice Virginia McGregor (tesoriera) e l’avvocato Chris Korge (responsabile delle finanze). A questi vanno affiancati anche i leader democratici al Senato e alla Camera, rispettivamente Chuck Schumer e Hakeem Jeffries, che non hanno ruoli formali ma semplicemente consultivi.
A loro – ma soprattutto ai loro successori – il compito di ricostruire il Partito Democratico e allevare un nuovo condottiero capace di suggellare un patto che tenga insieme gli elettorati storicamente dem e intercetti il consenso dei repubblicani moderati.
Qui si (ri)fa l’America, oppure si muore.