Tra il dire e il fare c’è di mezzo il… voto. L’America si sta riprendendo dallo choc del mancato assassinio dell’ex presidente Repubblicano ed è in mezzo al guado.
Biden, con la coda di paglia, ha detto di essersi pentito d’aver usato, mentre, la scorsa settimana, parlava in privato con un gruppo di finanziatori, il termine “bullseye”, cioè “bersaglio”, per indicare che l’avversario politico Trump andava messo nel mirino. Proprio così. “Mettiamo Trump nel bersaglio” erano le parole pronunciate dal presidente qualche giorno prima dell’attentato in Pennsylvania. E si sa che, quando un politico parla a porte chiuse con persone amiche che gli vogliono dare dei soldi, dice quello che pensa e che loro vogliono sentirsi dire.
Poi, a cecchino morto e Trump miracolato, Biden aveva parlato dalla Casa Bianca alle TV unificate per dire, in tono solenne, che bisogna deporre le armi della polemica politica, troppo accesa, infuocata. Ma il discorso che ha letto era un atto scontato, burocratico, scritto impeccabilmente dal suo staff che l’ha tirato fuori dallo scaffale sotto il titolo: “Non c’è spazio in America per la violenza”. Parole senza anima, senza la sincerità che nella attuale situazione della bipolarità americana sarebbe stata semplicemente indispensabile per procedere davvero verso la pacificazione, per cambiare il clima. Per raggiungere l’altra riva, quella del fare.
E sapete quale sarebbe la prova della “sincerità”? Un approccio a due dimensioni, del passato e del futuro. Nello specifico dell’America bipartitica è da anni, non dall’ultima sparata del “bersaglio”, che un partito, quello Democratico, ha deciso una linea di delegittimazione, senza se e senza ma, di Donald Trump. Gli attacchi senza ritegno al candidato avversario non possono essere considerati, perché non sono, critiche di natura politica. “Non sono – per dirla come il direttore della National Review Rich Lowry – accidentali o casuali nella campagna Democratica 2024, ma centrali”.
Nel settembre 2022, parlando “all’anima dell’America”, Biden affermò che “Donald Trump e i Repubblicani MAGA rappresentano un estremismo che minaccia le vere fondamenta della nostra repubblica”. E poi ha precisato, rivolto ai Democratici, agli Indipendenti e ai Repubblicani del mainstream, di “essere più forte, più determinato e più impegnato a salvare la democrazia americana di quanto i MAGA repubblicani non lo siano per distruggere la democrazia americana”. E molto più recentemente, dopo la sua performance disastrosa del 27 giugno scorso nel dibattito alla CNN, in un comizio a Detroit Biden si è riferito a Trump come “minaccia a questa nazione”, scatenando i suoi fan che hanno intonato l’“inno delle manette”: “In galera! In galera!”.
Noi italiani possiamo dire di essere “cultori della materia” a proposito di demonizzazione, avendo assistito alle campagne della sinistra contro Silvio Berlusconi. Poi, via via che esercitava minor potere, i toni si sono smorzati, e adesso gli intitolano persino un aeroporto.
In America, Ronald Reagan (che ha avuto anche lui, da morto, uno scalo con il suo nome oltre a una riabilitazione postuma meritata) e George W. Bush avevano pure loro subito un trattamento molto severo. Nulla di paragonabile però alla scomunica sistemica contro Trump, che nei salotti è innominabile e ben oltre l’ostracismo. Quando per anni si semina, non tanto sui social, che sono un ricettacolo del peggio, ma nei discorsi in Congresso e nelle interviste, l’accostamento di Trump al fascismo, a Hitler, alla dittatura che verrà (anche se non ci fu la minima traccia nel suo primo mandato). Suona niente affatto credibile ogni appello di moderazione dei Dem che non si accompagni a un’ammissione autocritica di colpa per il bagaglio passato. Sarebbe quella, la premessa e la promessa, per un futuro di rapporti normali. Biden potrebbe riesumare i toni della campagna del 2020, quella che aveva impostato sulla “normalità” e che lo aveva premiato. E metterli in pratica.
E Trump? È l’altro polo della pacificazione in cui l’America spera e di cui ha tanto bisogno. Parlerà giovedì alla sua Convention a Milwaukee e ha un’occasione storica. Conquistare la stima del Paese con un discorso alto, magnanimo, conciliatore. Che parli alla gente e che dia, a Biden e ai Democratici, una lezione di stile e di leadership. Un Trump nuovo, toccato dalla Provvidenza. Un sogno? Vedremo.