Joe Biden ha fatto una visita medica dopo la debacle in TV e ha detto, solo ieri, a governatori e leader democratici: “Non ho alcun problema, sto bene… Ho sbagliato a strapazzarmi troppo e ho commesso un grave errore non misurando le mie forze, ma con 90 minuti non si annullano oltre 3 anni di presidenza e ho la forza per andare avanti…”
Per ora tutti gli credono o fingono di credergli, ma non durerà molto. Trump cresce nei sondaggi ed è arrivato a 6 punti di distacco. Se il vecchio Joe non ritrova lo slancio psicofisico e non recupera nei numeri del consenso popolare, la sua corsa è destinata a interrompersi e dovrà cedere il testimone.
Biden non riferisce le parole precise del suo medico, e nemmeno la portavoce della Casa Bianca. Il suo medico personale, dopo il dibattito, lo ha esaminato a fondo come fece a febbraio o si è solo accertato che il presidente non avesse il raffreddore?
Non è un dettaglio da poco. Questo aspetto tornerà ad affiorare giorno dopo giorno, ad ogni sua uscita pubblica, ad ogni incontro, col teleprompter o senza.
Venerdì, in prima serata, ci sarà l’attesa intervista alla ABC con George Stephanopoulos (già registrata), che dovrebbe diventare lo spartiacque fra rilancio o abbandono. Sabato, un altro comizio in Pennsylvania verrà esaminato al microscopio. La settimana prossima, l’annunciata conferenza stampa in occasione del vertice NATO a Washington diventerà un altro test sul piano internazionale. Ma i test prima o poi finiscono, e deve riprendere l’azione della campagna elettorale democratica, quasi congelata dalla sua misera figura contro un Trump falso e arrogante, al quale non è riuscito a controbattere. La presidenza invece proseguirà fino al 20 gennaio 2025, col passaggio delle consegne al nuovo vincitore o a se stesso, se rimarrà con successo in corsa. E anche 6 mesi con due guerre in corso comporteranno decisioni importanti, anche per un’anatra zoppa.
Ma l’idea di essere a termine potrebbe dare a Biden anche più determinazione, soprattutto sulla questione di Gaza. Poche ore fa ha avuto un nuovo colloquio telefonico con Netanyahu su ostaggi e cessate il fuoco, e sebbene si senta anche lui sotto assedio, questo suo ruolo presidenziale potrebbe diventare ancora più determinante se fosse in uscita.
Governatori, leader del partito, deputati e senatori amici, gli stessi rappresentanti al Senato e alla Camera che lui ha consultato in queste ultime frenetiche ore, continuano a fare quadrato intorno a lui con grande discrezione, tranne qualche voce molto più esplicita fuori dal coro. Ma segretamente Joe Biden, sempre appoggiato dalla famiglia, ha di fatto ricevuto un “ultimatum”: due settimane di tempo. La fine della convention repubblicana di Milwaukee, durante la quale Trump dovrà designare anche il suo vice e i suoi programmi.
Entro quella data, i sondaggi di Biden dovranno ribaltarsi, visto che adesso sconta un ritardo di 6 punti da Trump. Altrimenti, il partito compatto o meno lo ringrazierà e gli chiederà di passare la mano per sperare di vincere la corsa finale di novembre con qualcun altro.
Questo messaggio sta arrivando anche ai grandi donatori dem, che cominciano a dissociarsi da lui se rimarrà in corsa senza progressi rapidi e misurabili.
Biden è arrivato al novantesimo minuto e gli serve il golden goal per continuare. Due settimane in politica, con un’America spezzata in due, dove calano i sostenitori per i candidati dei due partiti e si ingrossa il bacino degli indipendenti, mentre non scende la simpatia per l’improbabile Robert Kennedy, sono una distanza temporale immensa, ma anche brevissima se si cercano risultati subito.
Non bastano più comizi, interviste, slogan o messaggi pubblicitari intelligenti per bloccare la minaccia che Donald Trump sta portando a 248 anni di storia americana e al suo sistema democratico. Va cambiata la percezione che gli elettori democratici e non hanno di un Biden onesto e affidabile, ma ritenuto adesso fisicamente incapace di reggere per altri quattro anni alla Casa Bianca, soprattutto dopo la sconcertante decisione della Corte Suprema che di fatto concede ai presidenti una larga e pelosa immunità nei loro atti compiuti al di fuori della legge.
In ogni caso, fra due settimane, il futuro dell’America democratica potrebbe non essere più lui.
Kamala Harris è la fedele e silenziosa vice presidente di fatto destinata a ricevere la torcia. Biden l’ha resa sempre più visibile in questi ultimi giorni, invitandola in tutte le riunioni di partito con i parlamentari, con i governatori e con lo staff elettorale che rimarrà lo stesso.
Hanno pranzato insieme mercoledì e probabilmente un graduale trasferimento della candidatura sta già avvenendo, piaccia o meno al resto del partito, che vorrebbe invece con qualche sua frangia una “convention aperta” con licenza di uccidere, dove tutti i delegati si azzererebbero per poi rivotare.
Biden, un fatto è certo, si è conquistato la nomination e alla Convention di Chicago solo lui può decidere se rinunciare o meno.
In caso di abbandono del presidente, Kamala è la designata naturale e nessuno potrà ostacolarla. Nemmeno i grandi donatori che magari hanno nomi diversi nel cassetto. Kamala non si tocca, non solo perché è donna, non solo perché è di colore e potrebbe diventare la prima presidentessa degli Stati Uniti, ma perché la forza di Biden e sua risiede anche nell’elettorato popolare e indipendente e soprattutto in quello femminile, che con le piccole donazioni chiedono che l’America non sia guidata da un dittatore, nemmeno per un giorno.
Sicuramente gli hamburger e gli hot dog del 4 di luglio alla Casa Bianca potranno portare consiglio a molti.
Anche perché per Biden il tempo della scelta definitiva stringe, e ormai sembra andare in una direzione sola.