Riapparirà molto presto, ma ieri non lo ha fatto. La qualità politica più importante di Joe Biden, anche da presidente, è sempre stata “la colla”. Ha saputo tenere insieme per 3 anni e mezzo con il suo pragmatismo e la sua esperienza un partito democratico litigiosissimo e spaccato al suo interno, con gruppetti di potere e donatori molto agguerriti e rancorosi gli uni contro gli altri. Biden ha governato bene alla Casa Bianca, rafforzato la Nato, dato segnali di stabilizzazione internazionale anche durante le guerre, migliorato la situazione economica del Paese e dei salari sostenendo grandi investimenti nelle infrastrutture e sull’ambiente. Si è scagliato contro la decisione della Corte Suprema sull’aborto e ha annullato i debiti studenteschi. Ma in quel ruolo pesante è invecchiato moltissimo e a 81 anni è sempre più rigido nei movimenti.
Durante il dibattito con Donald Trump quella rigidità e debolezza fisica, davanti a oltre 60 milioni di telespettatori USA e centinaia di milioni nel mondo, è diventata per 90 minuti anche mentale, seguita da diversi momenti di incoerenza che hanno buttato nel panico i leader democratici a 4 mesi dal voto. I maggiori opinionisti americani lo considerano non in grado di recuperare e lo hanno invitato farsi da parte. Anche gli opinionisti amici non lo ritengono in grado di proseguire per altri 4 anni. Il partito democratico, però, nel suo complesso, a partire da Barack Obama e Nancy Pelosi, ancora lo difende e sostiene in pieno perché è Joe Biden con Kamala Harris che ha la nomination in tasca e sarebbe difficilissimo toglierla. La convention democratica si terrà a Chicago a metà agosto, ma 45 giorni nel limbo potrebbero diventare insostenibili per deputati e senatori in corsa per i loro seggi e per i super donatori che, in genere, decidono dove portare il partito nei momenti cruciali.
Ieri a Camp David, anche se era già in programma, Biden si è riunito con tutta la sua famiglia e col suo clan per quella che potrebbe diventare o la più amara decisione della sua vita, se si dovese ritirare, o la scommessa più rischiosa e forse irresponsabile, se decidesse di andare avanti fino a novembre o solo fino alla convention di Chicago, dove verrà ufficializzata la nomination col ticket che dovrà sfidare Trump e il suo vice che verranno incoronati fra 15 giorni nella convention repubblicana di Milwaukee.
Biden è stato disastroso, nessuno lo mette in dubbio, ma il partito democratico non ha, almeno per ora, intenzione di sostituirlo o spingerlo da un lato. Si aprirebbe una voragine al suo interno ancora più pericolosa, con 2000 delegati scatenati a sostenere almeno 5 o 6 alternative diverse. Forse una di queste non sarebbe nemmeno Kamala Harris, la prima in linea se Biden la nominasse come sostituta per completare il suo programma elettorale nel caso di ritiro.
Da Camp David però il clan dei Biden e la sua macchina elettorale fanno sapere che la corsa continua contro Donald Trump e le sue colossali bugie, e verrà portata in tutte le città d’America da qui al giorno del voto. Da Barak Obama a Nancy Pelosi, dal leader del senato Schumer al leader del caucus nero Clyburn sono tutti stretti intorno al vecchio Joe caduto davanti alle telecamere di Atlanta, ma rialzatosi poche ore dopo in North Carolina e a New York.
Nonostante la performance orribile, Biden ha raccolto durante il dibattito oltre 33 milioni di dollari trascinando tutti i candidati democratici negli Stati in bilico. Per loro, se rimane al suo posto, rappresenta una garanzia nel rispetto dei valori democratici che Trump invece vuole cancellare rifiutandosi di riconoscere il risultato delle elezioni del 2020 e probabilmente anche del 2024 se non dovesse vincere.
Il partito democratico ha scatenato tutti i suoi pompieri in queste ore invitando alla calma e a proseguire nella campagna elettorale scoraggiando di gran lunga l’idea di una convention aperta che potrebbe tranquillamente sgretorale il partito.
Per qualche ora “la colla di Biden” regge ancora, ma potrebbe seccarsi in fretta e non tenere più unito l’asinello.