L’uomo che visse due volte, scampato quasi miracolosamente a un letale avvelenamento oltre che a mille altri pericoli, non ha mai smorzato lo spirito rivoluzionario. E Khaled Meshaal non arretra neanche davanti all’orrore provocato dalle stragi terroristiche compiute il 7 ottobre dai commandos palestinesi in territorio israeliano.
Oggi, leader in esilio di Hamas, è il regista delle proteste islamiche che istiga con l’incitamento ai “fratelli” di Siria, Giordania, Libano ed Egitto a invadere le piazze. Come atto di dovere supremo e finanche di responsabilità religiosa, in difesa del suo popolo assediato nella Striscia dall’esercito di Israele per la ritorsione ai massacri.
Meshaal, 67 anni, presidente dell’ufficio politico (la carica massima) di Hamas dal 1996 al 2017, oltre alle storiche ragioni di rivendicazione del suo popolo oppresso ha anche un vecchio conto da regolare con Benjamin Netanyahu, allora al suo primo mandato come premier del governo di Gerusalemme. Nel 1997 ad Amman sopravvisse in una drammatica corsa contro il tempo ad un attentato ordito dal Mossad su ordine del leader israeliano.
Sei agenti con passaporto canadese si infiltrarono in Giordania, abbordarono Meshaal nei pressi del suo ufficio di Hamas e gli iniettarono del veleno dentro un orecchio. La polizia giordana scoprì l’assalto e arrestò due degli esecutori. La vittima rimase per qualche ora fra la vita e la morte. A salvarlo fu re Hussein che chiese a Netanyahu l’antidoto per neutralizzare l’azione del veleno.

Vistosi scoperto, per evitare insurrezioni nel mondo arabo e complicazioni diplomatiche, il premier acconsentì. In cambio del rilascio dei due agenti fermati il monarca ottenne anche la liberazione di Ahmed Yassin, il fondatore spirituale di Hamas, che perderà poi la vita a Gaza in un attacco missilistico degli israeliani nel 2004. “Le minacce di Israele”, fu il commento di Meshaal dopo la guarigione, “possono avere due effetti distinti. Alcune persone ne sono intimidite mentre altri reagiscono diventando più provocatori e determinati. Io appartengo a questi ultimi”.
Chi scrive ha incontrato Meshaal a Damasco una quindicina di anni fa per una delle rare interviste concesse alla stampa occidentale. Il colloquio fu favorito dall’intervento da Mohsen Bilal, l’allora ministro dell’Informazione siriano che si era laureato in Medicina in Italia e parlava correntemente la nostra lingua. Per raggiungere il suo ufficio furono prese rigide precauzioni pur in un paese che gli era amico. Percorsi tortuosi in una macchina dai vetri oscurati, come nei film di spionaggio. Deviazioni verso polverose periferie. E, infine, perquisizione di rito dentro un edificio modesto prima di poter accedere alla modesta stanza dove Meshaal elaborava le strategie di Hamas.
Piglio deciso e sguardo gelido. Ma anche cortesia verso l’ospite derivante in parte dalle esigenze di propaganda, in parte (nonostante i pericoli sempre in agguato) dal galateo dei contatti internazionali, in parte dalle vaste letture. Prima di andare al nocciolo della questione palestinese, Meshaal mi sintetizzò la sua vita costellata di insidie fin dall’infanzia. Nato a Silwad (Cisgiordania) ed emigrato con la famiglia a 11 anni dopo la “guerra dei sei giorni”.

Aderisce da adolescente ai Fratelli Musulmani, si laurea in Fisica a 22 anni e prima di compierne 30 affianca Ahmed Yassin nella fondazione di Hamas. Dopo la prima guerra in Iraq (1991) viene espulso dal Kuwait che, irritato per il sostegno di Yasser Arafat all’invasione sferrata da Saddam Hussein, caccia 30 mila palestinesi. Trova riparo in Giordania dove diventa leader assoluto di Hamas. Ma dopo l’avvelenamento diventa una personalità scomoda: re Hussein gli salva la vita e dopo due anni lo espelle sua volta per attività politiche illecite.
Da palestinese errante si trasferisce prima in Qatar e poi in Siria. In seguito, dopo lo scoppio della primavera araba, ritornerà in Qatar, grande protettore di Hamas. E prima di cedere lo scettro del comando a Ismail Haniyeh concorrerà insieme all’Egitto alla mediazione per il rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit in cambio di oltre mille prigionieri palestinesi.
Nelle parole di quell’intervista traspariva la carica di odio maturato da Meshaal nei confronti di Israele, appena mitigata dai vincoli di una realpolitik che lo induceva a denti stretti a ipotizzare il suo riconoscimento, ma a condizioni ben precise. Nascita dello Stato palestinese, liberazione di tutti i prigionieri politici, diritto di ritorno nei luoghi di origine per tutti i connazionali della diaspora.
Nella lunga conversazione affiorarono anche le sue perplessità sulla politica a lui spesso incomprensibile dell’Occidente. Con curiosità accentuata per un leader a suo avviso sconcertante come Silvio Berlusconi che, capovolgendo i ruoli, gli faceva indossare i panni dell’intervistatore.
Negli ultimi anni Meshaal, consigliato possibilmente dalla monarchia reggente di Doha, sembrava aver assunto un profilo un po’ più moderato. Ma l’incalzare degli ultimi tragici eventi lo ha risospinto verso quel radicalismo che è sempre stato la sua ragione di vita.