Le schermaglie giudiziarie di Donald Trump si intrecciano con gli appuntamenti elettorali dell’ex presidente che, nonostante le varie incriminazioni penali, resta il candidato preferito dai repubblicani.
Mai nella storia americana un concorrente per la Casa Bianca ha affrontato la sua campagna elettorale in una situazione simile, quasi una comica: Casa Bianca o casa penale?
Le bugie elettorali dell’ex presidente, i suoi tentativi di rimanere al potere nonostante fosse stato sconfitto, il suo menefreghismo per il rispetto basilare delle regole democrazia, sono decisioni e atteggiamenti da lui presi le cui conseguenze giudiziarie lo stanno inseguendo e che con furbizia ora cerca di diventare vittima in una situazione da lui creata.
Delle incriminazioni ricevute, alle quali presto potrebbe aggiungersi anche quella da parte dello Stato della Georgia, quella più “pesante” è quella che lo vede imputato di cospirazione per frodare gli Stati Uniti, associazione a delinquere per ostacolare un procedimento ufficiale, aver ostacolato un procedimento ufficiale, cospirazione politica contro i diritti inalienabili protetti dalla Costituzione. E come difesa, anziché controbattere alle accuse, gli avvocati dell’ex presidente candidamente affermano che il loro cliente ha tutto il diritto di dire le bugie, protetto dal primo emendamento della Costituzione, quello che protegge la libertà di espressione. Un rozzo tentativo per cercare di spostare l’ottica dei procedimenti, non più esaminando quanto accaduto, ma sulla libertà di poter mentire su quanto accaduto.
Delle incriminazioni la più più “pesante” è quella sul tentativo insurrezionale del 6 gennaio perché il suo orchestrato rifiuto di accettare il risultato elettorale e il suo successivo tentativo di cambiarne l’esito, se dovesse essere riconosciuto colpevole, gli aprirebbe le porte della prigione, addirittura prima delle elezioni.

Mentre a Washington si assiste alle schermaglie preprocessuali tra pubblici ministeri e avvocati difensori, la macchina elettorale continua a marciare. Si profilano i dibattiti di fine mese, si contano i candidati che potranno prenderne parte. I sondaggi vedono sempre in testa l’ex presidente, con vantaggi abissali sui suoi inseguitori. Il governatore della Florida Ron DeSantis, da astro nascente a stella cadente: a Marzo era dato al 31% delle preferenze, oggi è a meno del 15%. Questa mattina ha licenziato la sua campaign manager, Generra Peck e ha ripreso i “vecchi” collaboratori che negli anni lo hanno portato a conquistare la posizione di governatore. Ma la sua decisione sembra essere dettata più dal nervosismo che da un serio esame della situazione.
Il professor Patrick Murray, responsabile dei sondaggi demoscopici della Monmouth University durante gli impeachment dell’ex presidente tracciò la fisionomia del repubblicano trumpista: “Donald Trump detiene un forte sostegno all’interno del movimento MAGA, che si occupa meno di questioni politiche e più della politica di protesta. Nello specifico, chi sta nel MAGA crede che le istituzioni politiche americane stiano cercando di minare il loro modo di vivere e la cultura americana così come loro la vedono. Trump è l’incarnazione di questa protesta”. E così più viene colpito dai procedimenti giudiziari, più il suo mondo si stringe intorno a lui.

Ed ecco che la strada della giustizia e quello della politica si incrociano e si scontrano creando una situazione unica nella storia americana. In questi giorni si è aperto un dibattito sul fatto che gli americani debbano essere in grado di assistere al processo.
Le regole del tribunale federale vietano chiaramente fotografie o riprese televisive nei casi penali. Una disposizione attuata dopo il processo per il rapimento del figlio di Lindenbergh nel 1935 per il sensazionalismo mediatico che venne dato alla vicenda. Da allora altri processi penali statali, come quello a OJ Simpson, sono stati ripresi. Ma mai procedimenti federali. Nei giorni scorsi una quarantina di parlamentari democratici hanno scritto a Roslyn Mauskopf, responsabile della Conferenza Giudiziaria federale chiedendo di fare un’eccezione a causa della natura straordinaria delle accuse mosse contro l’ex presidente. Ma non solo i politici chiedono che il processo a Trump sia trasmesso in diretta tv, ma anche le maggiori testate giornalistiche americane, dal New York Times al Washington Post, dal Daily News al New York Post hanno rivolto la stessa domanda.
Richiesta alla quale anche La Voce di New York si associa sia per documentare questo storico evento, sia per vedere con i nostri occhi quanto avviene in aula, e ascoltare domande e risposte dei testimoni e non ricevere solo il racconto degli avvocati modellato per la difesa del loro cliente. Ma anche, e soprattutto, per il processo di pacificazione in una società così polarizzata che solo vedendo le immagini e sentendo le testimonianze nel procedimento giudiziario, potrà accettare il verdetto.