Ha destato polemiche l’intenzione del governo Meloni di sostituire i massimi dirigenti delle amministrazioni pubbliche con nominativi di fiducia. Il sospetto è che si voglia avere un personale direttivo che condivida gli orientamenti della compagine governativa e assecondi il nuovo corso senza ostacoli.
Una finalità strumentale rispetto all’interesse partitico, a dispetto dell’imparzialità e indipendenza dell’azione amministrativa. Quando non soggetta a scopi clientelari: sistemare gli affiliati. Risarcire i trombati, consolare gli esclusi dai primi incarichi. Le vicende degli ultimi decenni hanno mostrato, ha scritto allarmato Sabino Cassese, che «la fame di posti della politica si è rivolta alla pubblica amministrazione» (Corriere, 10.1.23).
Può allarmare il cambiamento radicale se arriveranno personalità di modesto spessore, qualificate soltanto dall’appartenenza. Ma non si tratta di una novità, né di un abuso, piuttosto di una prassi diffusa nelle democrazie occidentali. Nella legislazione italiana trova riconoscimento dal 2002-2006, quando fu sancita la cessazione automatica degli incarichi di alta e media dirigenza, trascorsi 90 giorni dalla fiducia al nuovo governo. Dagli anni ’90, si era manifestata la stessa tendenza, con la scelta del sistema maggioritario a livello nazionale (la legge Mattarella) e locale.
L’istituto sarebbe servito ad armonizzare amministrazione e politica, per il buon andamento dell’azione pubblica. Alla prassi, non sono rimasti estranei, qualunque fosse il colore i governi precedenti, che vi hanno fatto ampio ricorso. È quanto avvenuto quando a Palazzo Chigi c’era il Pd di Matteo Renzi e allorché vinsero i 5Stelle.

Può essere giustificato che il nuovo esecutivo scelga le persone adatte per realizzare il programma politico vincente. Semmai si tratta di valutare la dimensione del fenomeno, il livello dei cambiamenti, la qualità del personale chiamato ai nuovi incarichi. Insomma gli esiti pratici di una rivoluzione importante.
Fuori dall’Italia, la prassi – denominata spoils system – ha visto una prima applicazione negli Usa a partire da inizio ‘800, in conseguenza delle vittorie elettorali su base maggioritaria. Al vincitore, disse il senatore William Marcy nel 1832, spetta «il bottino del nemico», cioè il potere esercitato nell’amministrazione, appannaggio delle precedenti compagini. In applicazione di ciò, il nuovo Presidente nei primi 60 giorni provvede alla nomina di 200-300 posti chiave della sua amministrazione, in base all’omogeneità di vedute.
Tutto normale allora, persino utile per l’azione amministrativa? Si può escludere il clientelismo? Conviene rinunciare al merit system, basato sulla valutazione oggettiva della capacità, attraverso concorsi pubblici? Infine non c’è qualcosa di stonato nel qualificare come «bottino» il potere pubblico, quando dovrebbe essere considerato un servizio al cittadino, e dunque allo Stato?
Come spesso accade, lo status del paese che adotta una regola alla fine fa la differenza. In Italia, a differenza degli Usa, il sistema elettorale è parzialmente maggioritario e non assicura affatto la stabilità dei governi per la durata della legislatura. Inoltre la loro vita è breve, inferiore ai cinque anni, spesso con composizioni eterogenee (si pensi al governo giallo-verde di 5Stelle+Lega e a quello giallo-rosso di 5Stelle+PD). Conseguenza: la classe dirigente non ha tempo di studiare i dossier, impostare una linea e metterla in pratica, che deve fare le valigie. Vive nella precarietà.

Per altro verso, in Italia – a differenza per esempio della Francia – pesa un difetto strutturale e culturale. Mancano le scuole di eccellenza per la formazione degli amministratori pubblici, e di riflesso la cultura dell’imparzialità e del merito, che troverebbe il referente costituzionale nell’articolo 54 (i cittadini ai quali sono affidati funzioni pubbliche devono esercitarle «con disciplina ed onore»), e nell’art. 97 (l’accesso agli incarichi pubblici avviene di regola mediante concorso pubblico, e così si accertano capacità e competenze).
La delicatezza nell’esercizio di questo potere traspare dalle pronunce della Corte Costituzionale. Il ricambio dirigenziale è fatto salvo da una sentenza del 2006, che ne ha sottolineato l’utilità per il buon andamento amministrativo. Quanto poi all’imparzialità, la Corte ha ribadito la necessità che non sia pregiudicata l’indipendenza dell’azione pubblica. La combinazione delle due esigenze esige di limitare l’intervento della politica ai vertici apicali (più a contatto con la politica), lasciando inalterata la struttura interna (quella che svolge l’azione diretta). In modo che ai governi spetti dettare le linee guida e al corpo amministrativo realizzarle, senza interferenze.
A prescindere dunque dagli interessi di parte e persino dalla bramosia (comprensibile ma pericolosa) di chi è stato lontano dal potere nei settantacinque anni della Repubblica, non è l’acquisizione del «bottino del nemico» il modo migliore per far funzionare a dovere la macchina amministrativa. Rimane sempre la centralità dei valori dell’esperienza e della competenza. Quali che siano le finalità (pur legittime) di ciascuna compagine governativa, il Paese ha bisogno di una classe dirigente idonea, e neutrale rispetto ai fini di parte.