Un’ultima botta proprio sul finire dell’anno: in una riunione speciale venerdì la Camera ha reso pubbliche le cartelle fiscali di Donald Trump. Erano più di quattro anni, dal 2019, che i democratici chiedevano che l’allora presidente si uniformasse alla tradizione e rendesse note le proprie denunce delle tasse, una richiesta alla quale lui si era opposto sostenendo di non potere perché era oggetto di una revisione fiscale da parte dell’IRS. Invece si è scoperto che l’IRS, il fisco americano, non solo non stava facendo nessun controllo precedente, ma neanche quelli richiesti per legge dal 1977 su ogni presidente al momento del suo insediamento. Trattamenti di favore che potrebbero mettere nei guai l’agenzia delle tasse tanto odiata dagli americani.
Che Trump avesse tentato ogni trucchetto per pagare meno possibile di tasse era peraltro un fatto già conosciuto, ma constatare sui documenti ufficiali la vastità delle sue irregolarità, e scoprire che il miliardario imprenditore ha per anni denunciato perdite massicce riuscendo a non pagare neanche un centesimo di tasse sul reddito, o percentuali risibili considerata la sua ricchezza, non fa che aggiungere alla lunga lista di scandali e scandaletti che l’ex presidente ha accumulato e che cominciano a pesare molto sul suo nome e sulla sua popolarità. Per di più – secondo l’agenzia Bloomberg – le cartelle forniscono anche maggiori dettagli su come “Trump abbia beneficiato della legge sul taglio delle tasse del 2017 (da lui stesso voluta, ndr), che includeva riduzioni dei prelievi fiscali e ampliate detraibilità per alcuni redditi più alti”.
L’anno si chiude dunque in modo nettamente negativo per il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti ed è difficile immaginare che quello che arriva possa essere molto migliore: vari dei suoi problemi legali arriveranno a maturazione ed è possibile che sul suo capo cada anche più di una imputazione.
Lo scorso 15 novembre Donald Trump ha annunciato la sua scesa in campo per le presidenziali del 2024, ma intorno a lui non si è creata quell’effervescenza che normalmente circonda le sue attività politiche. Il fatto è che poco prima di annunciare la propria candidatura, Trump aveva subito la terza sconfitta elettorale, oltre a quella riportata dal suo partito durante la sua presidenza nel 2018, poi da lui stesso nelle presidenziali del 2020, e di nuovo nelle elezioni di metà mandato il 3 novembre, quando tutti i candidati scelti appositamente da lui per poltrone di governatore e di senatore sono stati clamorosamente sconfitti dai democratici. Qualcuno nel partito repubblicano ha cominciato a dire apertamente che Trump è “un perdente”, un’etichetta che gli brucia e che gli fa temere di diventare irrilevante.
Per anni il partito repubblicano ha tollerato ogni cosa da Trump, nel nome della vittoria, della sua popolarità, del suo appeal presso quella base popolare di destra che si sente ignorata sia dal partito democratico che dall’elite dello stesso partito repubblicano. Ma la sconfitta delle elezioni di metà mandato è stata per molti nel partito la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Un vaso che si era riempito nel corso dell’anno, mentre si accumulavano fatti incresciosi che avrebbero sicuramente finito la carriera di qualsiasi altro politico.

C’era stata la perquisizione di casa sua da parte dell’Fbi e la confisca di documenti ufficiali, alcuni top-secret, che si era rifiutato di restituire dopo la fine del suo mandato presidenziale, un’ostinazione che potrebbe tradursi in un’incriminazione per ostruzione della giustizia. In Georgia intanto un gran giurì sta scrivendo in questi giorni un parere che dovrà stabilire se ci siano gli estremi per incriminare l’ex presidente di interferenze elettorali durante la conta dei voti del 2020. A New York invece la procuratrice distrettuale Letitia James ha aperto contro di lui una causa per danni civili di 250 milioni per falso in bilancio. E solo pochi giorni fa la Commissione di inchiesta della Camera sui fatti del 6 gennaio, quando una folla impazzita di migliaia e migliaia di sostenitori di Trump invase di Campidoglio, ha concluso i suoi 18 mesi di indagine con una documentazione di 800 pagine in cui si sostiene che ci sono gli estremi per incriminare l’ex presidente di quattro capi di accusa, “ostruzione di un procedimento ufficiale”, “cospirazione per frodare gli Stati Uniti”, “cospirazione per fare false dichiarazioni”, “incitazione a un’insurrezione”.
Per evitare di dare la sensazione che ci sia un fumus persecutionis contro Donald Trump da parte dell’Amministrazione Biden, il Ministro della Giustizia Merrick Garland ha nominato un procuratore speciale, Jack Smith, un giudice di carriera che ha servito sotto presidenti repubblicani e democratici. Smith è noto al livello internazionale per la determinazione con cui presso il Tribunale dell’Aia ha perseguito l’ex presidente del Kosovo, Hashim Thaçi, ora in prigione per crimini contro l’umanità condotti quando era a capo della Kosovo Liberation Army durante la guerra di indipendenza contro la Serbia.

Richiamato a Washington, Jack Smith ha preso in mano le inchieste federali attualmente in corso contro Trump, quella sulla possibile ostruzione alla giustizia sui documenti asportati dalla Casa Bianca e quella sul possibile coinvolgimento nell’insurrezione del 6 gennaio.
Inutile dire che Trump ha reagito a tutte queste notizie sostenendo sempre che si trattava di un “fake news”, di “persecuzione” ai suoi danni, e che la Commissione 6 gennaio era “corrotta e compromessa” contro di lui. Peccato che ci siano 800 pagine di testimonianze, quasi esclusivamente fornite sotto giuramento da repubblicani ed ex membri della sua stessa Amministrazione, che confermano nero su bianco, con nome e cognome e tanto di virgolettato, che Donald Trump aveva addirittura cominciato a programmare di mentire e manipolare le elezioni già mesi prima che si votasse, e quindi che tutto il suo operato complottista prima, durante e dopo le elezioni 2020 era stato premeditato.
L’anno si conclude dunque amaramente per Donald Trump. A leggere la giornalista Olivia Nuzzi, una delle più fini analiste di politica oggi negli Stati Uniti, sulle pagine della rivista “New York”, Donald Trump è chiuso in questo momento nella sua villa di Mar-a-Lago in Florida, dove trascorre la vita tra i campi di golf e le lussuose sale da pranzo, quasi in solitudine e pieno di rabbia. Vari nomi si fanno adesso come possibili suoi rivali alle primarie del partito repubblicano. In cima a tutti è quello del governatore della Florida Ron De Santis, che ha superato Donald Trump assumendo posizioni ancora più a destra, intolleranti e repressive di quelle che Trump aveva abbracciato durante la sua presidenza.
Ci sono però altri nomi di repubblicani, più moderati, come il governatore della Virginia Glenn Youngkin, l’ex governatore del Maryland Larry Hogan, l’ex ministro degli Esteri Mike Pompeo, lo stesso ex vicepresidente Mike Pence, o l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley.
Ma fino a che Donald Trump continuerà ad avere il sostegno della base del partito repubblicano, è difficile pensare che chiunque di questi sfidanti possa vincere le primarie. Come ha scritto l’Economist: “Il narcisismo di Donald Trump rimane il buco nero intorno al quale la politica americana è costretta a orbitare”. Dopo tutti questi anni, è dunque sconsigliato dare per sicuro che Trump sia definitivamente sconfitto. Anzi non manca chi oggi negli Stati Uniti ipotizzi che proprio perché si sente così perdente e irrilevante, proprio perché teme di essere incriminato, Trump possa tentare altri colpi di testa, altre azioni pericolose come quelle del 6 gennaio.