Il 12 ottobre 2012, il comitato norvegese per il Nobel assegnò il premio Nobel per la Pace all’Unione Europea. Non si è mai ragionato abbastanza sul significato politico di quella decisione, benché si sia trattato da un lato di un segnale esplicito indirizzato a governi e opinioni pubbliche perché seguendo l’esempio Ue favorissero la pace e i diritti umani, dall’altro di un tacito invito alle istituzioni di Bruxelles perché assumessero un ruolo più attivo nella pacificazione delle relazioni internazionali. I pregi, ma anche i limiti, di quella capacità Ue in larga parte inespressa, si sarebbero visti appena un mese dopo quando, all’interno della permanente crisi tra Israele e l’ala estrema della comunità palestinese, un razzo israeliano avrebbe colpito il capo militare di Hamas, Ahmed Said Khalili al-Jabari, 52 anni, mentre si spostava in automobile con il figlio e due capi del movimento islamico filo iraniano. Fu l’innesco di giorni di attacchi e uccisioni, con missili di fabbricazione iraniana gettati su Tel Aviv e i sobborghi di Gerusalemme. Mentre Israele chiamava decine di migliaia di riservisti, furono Egitto e Stati Uniti a mediare per il cessate il fuoco; totalmente assente l’Unione Europea, nonostante sul campo restassero uccisi, con qualche israeliano, più di cento palestinesi, civili e bambini inclusi .
Nel frattempo, non c’è dubbio che la maturazione dell’Unione Europea verso forme più intense di partecipazione alla politica internazionale, sia avanzata e lo si vede nella dedicazione che quotidianamente mostra alla causa ucraina, attraverso l’invio di armi e aiuti. Eppure si fanno ancora notare esitazioni e contraddizioni in diversi paesi membri (dal governo ungherese, ma anche da schieramenti politici in Germania e Italia). Sembra come se lo spirito di pacificazione che anima le istituzioni comuni, sia sempre a rischio di generare un irenismo del tutto fuori dalla storia, o che nell’Ue si confonda l’essere pacifici con l’essere pacifisti ovvero – per pavidità – complici dell’aggressore contro l’aggredito. Echeggiando parole di Franklin D. Roosevelt e di Winston Churchill, il non violento Marco Pannella ebbe a dire: “Il pacifismo in questo secolo ha prodotto effetti catastrofici, convergenti con quelli del nazismo e del comunismo.”
Anche per l’attualità di una questione che investe non solo la politica, ma le coscienze e il senso di responsabilità verso le vittime di ogni guerra, vale la pena tornare su quel Nobel all’UE, quando in una parte dell’Europa uno stato, la Russia, ripropone l’aggressione attraverso la guerra offensiva e illimitata come unico strumento capace di risolvere le controversie internazionali.
Vladimir Putin temette così tanto la natura e il potenziale della pacifica e fiorente Ue, da aprire proprio sull’associazione ucraina all’Ue la crisi che tra novembre 2013 e il 2014 rese esplicita la volontà russa di riprendersi ciò che l’implosione dell’Unione Sovietica aveva tolto a Mosca: il controllo sulle ricchezze e sul popolo ucraini. In piena crisi del novembre 2013, Putin avrà modo di dichiarare che l’accordo tra Ucraina e Ue era “negativo per gli interessi di sicurezza della Russia” e che pertanto non s’aveva da fare. Euromaidan, la grande protesta indipendentista ed europeista del popolo ucraino del 2014, nacque come rigetto della scelta dell’allora presidente Viktor Janukovyč di sottostare alle minacce russe, sospendendo l’accordo di associazione con l’Ue, siglato anni prima, e rilanciando il rapporto bilaterale con Mosca. Il nuovo governo ucraino firmerà in due fasi, tra marzo e giugno 2014, l’associazione con l’Ue, una scelta di destino, il taglio definitivo al cordone ombelicale che la sottometteva da secoli all’asiatico-dispotica Russia. Pagò subito la scelta di libertà con il furto russo della Crimea e l’infiltrazione russa nel Donbass; paga oggi con i quotidiani efferati crimini di guerra che vengono perpetrati sul suo territorio.

In settant’anni di esistenza, attraverso i confini degli stati via via incorporati nelle istituzioni comuni dell’Ue, non si è sparato un solo colpo di fucile. Alla base del sistema che ha tenuto insieme prima i Sei, poi i Dodici, oggi i Ventisette, c’è stato il rifiuto della violenza e l’esaltazione del metodo del dialogo multilaterale. Le prime comunità, nell’immediato dopoguerra – in scia con l’idealismo dei Kant, Hugo, Woodrow Wilson, Turati, Spinelli, e il funzionalismo di Monnet – fondarono sulla collaborazione economica e commerciale la pacificazione del continente. Come riconobbe il comitato del Nobel: “The union and its forerunners have for over six decades contributed to the advancement of peace and reconciliation, democracy and human rights in Europe.”
Sono premesse che spiegano come a molti regimi l’alternativa democratica Ue possa apparire un morbo da estirpare: al Cremlino, ad esempio, vi è il manifesto timore di un’infezione di valori democratici e pacificatori su popolazioni che si intende mantenere sotto il giogo dittatoriale, così da utilizzarle per guerre di rapina e conquista, come la Russia ha fatto in Cecenia, Siria, Georgia, Africa e, appunto, Ucraina.
La Ue, – il comitato Nobel volle ribadire – si basa invece sul principio di riconciliazione, che va mano nella mano con quello della difesa dei diritti umani: “over a seventy-year period, Germany and France had fought three wars. Today war between Germany and France is unthinkable. This shows how, through well-aimed efforts and by building up mutual confidence, historical enemies can become close partners.”
È ciò che si auspica possa avvenire un giorno tra Mosca e Kyiv. E però, come nel caso franco tedesco, occorre l’impossibile: che la Russia smetta il bullismo con i vicini, torni dentro le frontiere internazionalmente riconosciute, paghi per i suoi crimini di guerra, si dia un sistema autenticamente democratico. Allora il modello Ue potrebbe funzionare, pacificando la parte centro-orientale, come decenni fa ha pacificato quella centro-occidentale. Scrissero a Oslo convintamente, guardando a come nei sessant’anni di esistenza la Ue avesse allargato la serena macchia di pacificazione continentale :
“The EU’s most important result: the successful struggle for peace and reconciliation and for democracy and human rights. The stabilizing part played by the EU has helped to transform most of Europe from a continent of war to a continent of peace.“
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