La dietrologia e la ricerca del retroscena fanno parte del bagaglio di qualunque analista di fatti politici. Per una semplice ragione. Tra le specialità di ogni leader politico, c’è quella di diffondere utili menzogne. Non casualmente, tra le definizioni della politica che circolano, c’è quella che la inquadra come arte della menzogna. Ne scrisse in Britannia (The Art of Political Lying) il prete anglicano, padre di Gulliver, Jonathan Swift già nel 1710, più di tre secoli fa. Occorre quindi grattare la superficie, per provare ad arrivare ad una pista che faccia comprendere cosa davvero si celi dietro taluni comportamenti dei politici.
La strana e inspiegata crisi politica dell’estate italiana ha visto protagonisti di prima fila il Movimento Cinque Stelle e la Lega, ai quali si è poi accodata Forza Italia. Nelle motivazioni ufficiali che hanno portato i loro tre gruppi parlamentari a non pronunciarsi alla Camera dei deputati per l’approvazione delle comunicazioni del presidente del Consiglio, non figura alcuna questione di politica internazionale. Nelle conseguenze che derivano da quel comportamento e dalla caduta del governo, si distinguono però con nettezza rilevanti questioni di politica estera. Sarebbe mancare di rispetto all’intelligenza politica dei protagonisti della crisi, pensare che non fossero loro presenti, in particolare se si guarda alle posizioni e ai comportamenti espressi in politica estera nel recente passato. Di forte interesse quelli che riguardano due questioni fondamentali per il futuro della nazione e delle sue istituzioni democratiche: le opzioni pro Ucraina e pro Unione Europea che hanno caratterizzato il governo Draghi.
I tre partiti della crisi, hanno nella loro storia, collaborazioni, o peggio connivenze con Vladimir Putin, l’uomo che tra lo scorso e l’attuale decennio ha aggredito i paesi vicini a più riprese, e che sta conducendo da febbraio in Ucraina una guerra di conquista territoriale, rapina delle risorse, assassini di massa.

Berlusconi, fondatore e padre nobile di Fi, nel lontano 1994 da capo del governo prova a inserire la Russia nel G7 durante la presidenza di turno italiana, e replica con parziale successo con la Nato nel 2002. In questa seconda occasione l’allora primo ministro italiano si spinge sino a dichiarare che la Russia dovrà essere membro dell’Unione Europea, l’istituzione che vent’anni dopo sarebbe stata identificata dalle autorità russe obiettivo da abbattere.
Quando le fortune del politico italiano declinano, resta alta la frequentazione tra Putin e Belusconi, che si manifesta in una forte empatia nel privato e nelle prese di posizione pubbliche nelle quali si rimbalzano stima e legittimazione.
Wikileaks pubblicherà, tra le carte riservate dei servizi statunitensi, il giudizio che fa del capo di Fi “il portavoce di Putin in Europa”. Nel maggio 2022, di fronte alle stragi che i missili russi perpetrano in Ucraina, Berlusconi dichiara ai suoi riuniti in convention: “In Ucraina bisogna arrivare al più presto a una pace. Io credo che l’Europa unita deve fare una proposta di pace, cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin”.
Mariastella Gelmini, esponente di spicco di Fi che lascerà il partito a luglio, si dissocia, dichiarando: “L’Italia non può essere il ventre molle dell’Occidente e soprattutto non può diventarlo per responsabilità di Forza Italia.

La frequentazione della Lega salviniana è più casareccia e colleziona episodi che sembrano uscire dalla penna di un Guareschi del nostro tempo. Tra gli episodi degni di nota, l’incontro dell’ottobre 2018 al Metropol di Mosca con protagonista Gianluca Savoini, collaboratore di Matteo Salvini. Lui presiede l’associazione culturale Lombardia-Russia, ma apparentemente di cultura nisba: con i tre interlocutori russi parla di coincidenti visioni politiche e di affari legati alla compravendita di petrolio. Non casualmente lo accompagnano un avvocato internazionalista e un consulente fiscale. Ma Salvini e la Lega da tempo guardano alla Russia di Putin come un modello di riferimento. Visitando Mosca del 2014, dichiara in un video: “È una città pulita, non c’è un mendicante, non c’è un lavavetri, non ci sono rom, non c’è un clandestino. La polizia c’è, discreta, ma fa il suo lavoro. Se sbagli paghi”. Un anno dopo, a qualche metro da dove Salvini aveva registrato il video, è assassinato Boris Nemtov, allora il maggiore oppositore di Putin; doveva aver sbagliato qualcosa…
Nei quasi dieci anni del lento inesorabile distacco da Mosca della politica romana, Salvini lavorerà contro le sanzioni e, nel giugno 2022 – aggressione russa in corso – organizza un viaggio da Putin, al quale sarà costretto a rinunciare. Uno dei più influenti consiglieri politici del Cremlino, Sergej Markov – ha scritto Roberto Saviano – afferma che Salvini “è complice del regime di Putin”, specificando che “se non può arrivare la macchina di Draghi a Mosca, allora può funzionare la bicicletta di Salvini”, ‘la nostra bicicletta’.
In quanto a Conte e al suo partito, pur nella breve carriera politica, hanno accumulato indizi di una linea filorussa che non trova riscontro neppure negli altri due casi richiamati. Parlando in pubblico durante la crisi politica che ha aperto, affrontando l’invasione russa in Ucraina, Conte ha usato espressioni generiche sul “conflitto” in corso, senza accennare a responsabilità o crimini russi.

Da presidente del Consiglio nella drammatica fase iniziale della pandemia, accettò l’intrusione dei servizi russi nel cuore della nostra tragedia e dei suoi segreti tra Bergamo e Roma Spallanzani, con un comportamento tuttora sotto la lente d’ingrandimento delle autorità preposte alla nostra sicurezza nazionale. Si è rimproverata a Conte l’ambiguità di frasi come quella in parentesi, pronunciata a maggio in una conferenza stampa (“Condanniamo fermamente la Russia, sosteniamo convintamente l’Ucraina”, ma va ricercata la “soluzione politica al conflitto”, perché la sconfitta del progetto russo “significa aumento della carneficina, guerra ad oltranza senza limiti. … “chi sta abbracciando questo obiettivo sta commettendo un grande errore, e se fosse questo l’Italia deve correggerlo”, che premettono la condanna dell’invasione russa ma concludono negando agli ucraini la legittima difesa del loro territorio.
Alla luce dei pochi richiami, si capisce il senso della frase pronunciata da Draghi al Senato chiedendo la fiducia: “Dobbiamo aumentare gli sforzi per combattere le interferenze da parte della Russia e delle altre autocrazie nella nostra politica e nella nostra società”.
L’altro punto nevralgico della politica estera italiana è la costruzione europea. Dando per generale acquisizione la tiepidezza se non avversione con la quale sovranisti come Meloni e Salvini guardano all’Unione Europea, e le alleanze costruite dentro e fuori del Parlamento Europeo con leader antieuropei come Le Pen e Orbán, resta enigmatico il comportamento M5S. Il partito non si dichiara sovranista, come gli altri due, e molti punti del suo programma (si prenda, per un esempio, la priorità accordata ad ambiente e sociale) risultano in linea con l’Unione. Però nel programma elettorale del 2014 (epoca Di Maio) M5S chiedeva il “referendum per la permanenza nell’euro”. Cinque anni dopo, in piena trattativa di governo col Pd, Di Maio dirà a Class CNBC, di voler “restare nell’Unione Europea e nell’euro, ma con un’Italia protagonista”. Conte non ha alterato quell posizione, cercando di accasarsi presso i socialisti europei, poi presso i verdi, due gruppi che, per tradizione, sono tra i più europeisti del vecchio continente. La campagna elettorale dirà se scorie del passato scorrono ancora nelle vene del movimento.

Da questi e altri argomenti, le conclusioni sul fatto che il laccio intorno al governo Draghi sia stato tirato per ragioni soprattutto di politica internazionale.
Le premesse, per chiedersi se e come potranno cambiare le linee fondamentali di politica estera italiana in seguito alla caduta del governo Draghi. La partita sulla guida del prossimo governo si giocherà sui consensi elettorali dei partiti guida dei due schieramenti (Fratelli d’Italia a destra e il Partito Democratico a sinistra) e sulla capacità del vincente di raggranellare in parlamento voti sufficienti a governare. La coalizione per ora data per vincente, guidata di fatto da Giorgia Meloni, fatica a trovare una medesima identità sulla politica internazionale, in particolare per quanto riguarda l’atlantismo, il che, in termini di attualità, concerne soprattutto l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’aggressività russa verso l’Europa.
Difficile per Meloni alla lunga resistere alle sirene russe, sia per le affinità ideologiche con il regime clerico-autoritario russo del retroterra politico-culturale suo e del suo partito, sia per gli interessi anche economici e d’affari che i suoi partner di governo Lsp e Fi le rappresenteranno. Ciò si tradurrebbe nell’uscita dell’Italia dal ruolo fortemente attivo mantenuto sinora a favore della resistenza ucraina all’aggressore. Anche in materia di integrazione europea, non è difficile prevedere la decelerazione dell’impegno italiano per ogni processo che tendenzialmente alzi l’attuale condizione dell’Unione verso una maggiore quota di federalismo e sovranazionalismo. Ammesso che Forza Italia avesse intenzione di far valere la sua tradizione filoeuropeista, non ne avrebbe la forza né i numeri.

C’è una considerazione generale da fare, che riguarda l’inesperienza di politica internazionale della coalizione, a parte qualche esponente di Forza Italia, che potrà condurre ad errori già visti, ad esempio in materia di immigrazioni e diritti civili garantiti dal diritto internazionale. Dopo l’alto profilo donato all’Italia dal governo Draghi, potremmo piombare in una stagione di irrilevanza e non ascolto, che pagheremmo senza dubbio anche in termini economici e finanziari, visto che verrebbero a scemare contestualmente peso e affidabilità paese.
Nell’altra possibile coalizione di governo – dalla composizione ad oggi difficile da immaginare – può richiamarsi che le competenze di azione internazionale sono superiori, grazie alla lunga e quasi incessante attività di governo e relazioni del Pd. Tuttavia, anche in questo caso il paese tornerebbe a un ruolo di scarso peso negli affari internazionali ed europei.
Piaccia o non, il ritiro a Caprera di Draghi costerà parecchio alla nostra politica estera. Si guardi, per un paio di esempi, a come super Mario abbia risolto meglio di ogni altro partner UE la questione dell’approvvigionamento energetico dell’Italia, riaprendo al tempo stesso all’Italia le vie dell’Africa, dopo decenni di colpevole dimenticanza del ceto politico italiano.
Se, come certi spifferi dai palazzi del potere lasciano trapelare, la coalizione di centro-sinistra, se disponesse di numeri sufficienti in parlamento, potrebbe proporre a Mario Draghi di guidare un governo espresso dalle forze politiche “repubblicane”, ovviamente le cose cambierebbero. Ma siamo nella pura fiction.