In questa guerra dei forti contro i deboli, il cui esito è la sopravvivenza della speranza di un popolo, lo scontro è a tutto campo. Non conta solo la forza bruta, magari alla vecchia maniera. Il confronto impari tra Russia e Ucraina si svolge su molti piani, che si intersecano.
Gli scenari militari mutano di frequente e si mescolano a quelli mediatici. Cambia, secondo le esigenze, il modo di muoversi sul terreno e di agire nelle città, nei porti, nelle campagne. Muta la tattica degli aggressori per le mosse degli aggrediti e per circostanze collaterali, come le sanzioni occidentali alla Russia o l’invio di armi all’Ucraina.
Le azioni militari si accompagnano alle parole, e a molto altro: fotografie, filmati, ricognizioni, tracce e documenti delle violenze e della sofferenza. La guerra si svolge in diretta, sotto i nostri occhi, abbagliati dalla brutalità, scossi dall’efferatezza. Mai come oggi, come questa volta.
Non possiamo voltarci dall’altra parte. Le immagini arrivano nelle nostre case, siamo turbati da quelle visioni: palazzi sventrati, strade ricoperte di morti, ospedali e asili sotto le macerie. Gente intrappolata. L’odore della morte si mescola alla disperazione della gente.

Alcune situazioni evocano condizioni di guerra novecentesche, da seconda guerra mondiale, se non più antiche, per le tecniche di battaglia e l’espediente delle notizie diffuse ad arte, per influenzare il conflitto, disorientare il nemico o rincuorare i combattenti. Lo stile, a questo proposito, è a volte arcaico e scontato, altre innovativo.
La comunicazione ha un ruolo importante. Ma, di fronte alla tragedia, è fuori luogo, quasi offensivo, pensare che questa sia anche una “guerra di propaganda”? Una partita giocata pure sul racconto dei protagonisti, sulle descrizioni degli osservatori, su ciò che viene detto, oppure omesso. È anche così, naturalmente, però il pudore frena la riflessione.
Pensando alle parole degli uni e degli altri, ai linguaggi usati da Putin e Zelensky, ai richiami opposti al clima di morte o al bisogno di vita, subentrano delle remore morali. C’è un ritegno psicologico. Sembra così di alludere a qualcosa di artificioso, retorico, lontano dalla realtà, dunque stonato. È quanto si avverte in tante riflessioni sulla comunicazione in tempo di guerra. Emerge la sensazione che sia “sacrilego” verso gli aggrediti. Quasi a voler confondere la tragedia con la sua rappresentazione.
Quanto sperimentiamo segna il passaggio dall’immaginazione alla concretezza più cruda, impossibile dimenticarlo. Il salto è traumatico, così irrealistico nel XXI secolo il pensiero che, dopo anni di pace, qualcuno potesse aggredire uno Stato indipendente, fare strage delle vite e delle libertà degli inermi. Pensare di essere a tal punto scellerato da sbandierare la minaccia dell’apocalisse nucleare.
Ugualmente erano inimmaginabili tanti altri elementi, come la resistenza coriacea della popolazione ucraina, la solidarietà del mondo occidentale, la ritrovata sensibilità per i valori irrinunciabili della democrazia, la percezione dello scontro tra modelli di società, la contrapposizione tra l’istinto di sopraffazione, e i principi democratici di libertà.
Nemmeno era da supporre che avesse tanto spazio, od importanza, interrogarsi sulla personalità di chi ha scatenato il finimondo, e di chi ha avuto in sorte il destino di contrapporsi al sopruso, non si sa con quale esito finale.
Eppure, pensando alle cause di questa crisi epocale, è inevitabile allargare il campo di riflessione. Porsi delle domande. Fino a ieri, non era concepibile che un autocrate, come prima si diceva con un po’ di eufemismo per indicare un dittatore mascherato, potesse essere travolto dai suoi fantasmi di potere, e dal suo livore personale, sino ad osare l’inosabile.
Neppure era sospettabile la trasformazione dell’ex attore comico, arrivato alla presidenza quasi per caso, in ben altro: un leader capace di confortare la sua gente, di animarne la resistenza e di svegliare il mondo intero. Ora si assiste ad un’evoluzione ulteriore, da presidente a combattente, sempre più guerriero, concreto, legato alle mosse del campo di battaglia.

Per la verità non pensavamo neppure che, nel mondo russo, fosse possibile riportare all’indietro l’orologio della Storia, mostrare nostalgia per un passato superato, irriproducibile, che non merita più di esistere. Il mondo secolare ed ininterrotto degli zar-soviet-autocrati, definito dalla forza brutale e dal sopruso, che non riesce ad accedere all’idea che l’unica “supremazia” possibile sia l’eccellenza delle idee.
Sin dalle primissime ore, il presidente Zelensky ha fatto la differenza, trascinando generazioni, risvegliando le coscienze. Smesso il naso rosso del pagliaccio interpretato nella fortunata serie tv che gli aveva regalato fama in una surreale anticipazione di realtà, ha indossato con naturalezza la maglietta grigio verde militare: da allora non perde occasione per incitare la gente, esortarla a resistere e ad avere fiducia, per scuotere il mondo dal torpore.
Certo è stato aiutato dal vecchio ipocondriaco in giacca e cravatta che dal Cremlino tiene collaboratori e leader mondiali a distanze ridicole, che pronuncia discorsi rancorosi, grondanti nostalgia e risentimento, alla maniera dei vecchi burocrati sovietici.
Ma lui, Zelensky, non è sembrato recitare nemmeno quando parlava un po’ alla John Wayne. Epico e avventuroso. Né tanto meno ora che sembra un po’ Bill Murray, l’attore intrappolato nella stessa dimensione temporale, costretto ogni giorno a ripetere le medesime cose di ieri: aiutateci di più, dateci altre armi.
Sempre credibile, capace di parole giuste, severe ma misurate, persino pronunciate, nonostante le occhiaie crescenti con un accenno di sorriso. Come di chi – persona qualunque e lì per coincidenza – è consapevole d’essere al più importante appuntamento, e non vuole (non può) sfuggire alla prova che il destino gli riserva.
Se il Cremlino, per incrinare la fiducia degli ucraini, ne annunciava la fuga all’estero al modo di quel coraggioso di Asharf Ghani in Afghanistan, illudendosi che tutti avrebbero abbandonata la nave alle prime ondate di traverso, ecco che lui era pronto a farsi vedere di persona: in mille circostanze e insieme a leaders occidentali. Con quel mantra, che suona smentita della fuga e riaffermazione del buon diritto all’esistenza del suo paese: «sono qui».
Era qui, e lo è tuttora, ovunque: nel bunker dove lo cercano per accopparlo, nelle corsie d’ospedale a consolare i feriti, nelle videoconferenze a rimbrottare grandi potenze per il poco che fanno. Chiedendo aiuti, senza elemosinare, semmai pretendendoli. Con quelle parole e quei gesti, ha rivoluzionato il linguaggio del patriottismo.

Tutto il contrario di Putin che attore non è mai stato, ma che ha sempre interpretato, da quando era al Kgb in Germania al momento del crollo del Muro, la parte dell’inconsolabile cantore dell’epoca sovietica e prima ancora della potenza zarista. Il lessico putiniano è di quelli che non lasciano mai spiragli alla speranza, alla tregua, al ripensamento, all’inversione di rotta: fanno sempre terra bruciata.
Le parole di Putin calpestano logica e buon senso, oltre che verità storica. C’era un «genocidio» nel Donbass ai danni dei russi e andava contrastato. Il governo ucraino è composto da «drogati» e «nazisti», da eliminare. Il governo russo sta attuando la «difesa» dei russi perseguitati ovunque, pure fuori dai confini, anche se nessuno li minaccia e nessuno si è accorto che la piccola Ucraina stesse per invadere il grande vicino. I nemici non sono mai umani ma bestie: «sputeremo i traditori come moscerini entrati in bocca».
I riferimenti storici sono sempre gli stessi: la bandiera dei Romanov con l’aquila bifronte esibita alle spalle e la figura di Pietro I “Il grande” (1672-1725) alla guida della grande Russia dell’epoca d’oro. Il grande stadio plaudente, con un’esultanza fuori luogo davanti alle stesse perdite russe, è messaggio di paura, incute soggezione. Al centro, sul palco, la mente prigioniera dell’illusione della potenza imperiale, fondata sulle armi e sull’espansione violenta.
Il Pantheon delle idee di Zelensky comprende l’Europa, Winston Churchill, Martin Luther King, l’11 settembre, la caduta del Muro di Berlino. Ogni volta che parla sa trovare le parole giuste, gli argomenti sensibili, alcuni fanno singhiozzare. Definisce gli altri per raccontare la sua storia. Resiste in un modo sempre più pratico, militaresco.
Ai Comuni, cita Shakespeare e Churchill «combatteremo fino alla fine, in mare e nei cieli, per la nostra terra a qualunque costo». Davanti al Congresso americano, evoca l’11 settembre («ogni giorno per noi è l’11 settembre») e Pearl Harbour. Al Bundestag tedesco evoca «un nuovo Muro» al centro dell’Europa, critica quanti da quelle parti pensano solo alla convenienza mercantile: «l’economia, sempre l’economia». All’Ue, rivendica: «vogliamo essere membri dell’unione, oggi lottiamo anche per questo, mostrateci di essere al nostro fianco».

Mentre crescono i crimini e le vittime (milioni se si comprendono anche i feriti, la gente in fuga, tutti quelli che hanno perso il futuro), la catastrofe disumana esalta la verità e scrive la storia. Le pagine che l’Ucraina di Zelensky sta componendo non sono scritte da un narratore bravo, più capace e credibile dell’aggressore. Non meritano di essere lette perché meglio composte: sono un mezzo per opporsi alla brutalità.
Gli applausi con cui vengono accolti i suoi interventi segnano il divario tra il mondo libero e le dittature, inevitabilmente dominate dalla nevrosi dell’uomo forte in preda al delirio di onnipotenza, incapace di guardare al mondo se non come “natura morta”. Putin ha quegli occhi senza sguardo, indifferenti rispetto alle sorti delle persone. Privi di sentimenti, se non il terrore verso “l’altro” da sé, che scatena l’istinto ad umiliarlo.
La rivendicazione di «essere qui» assume alla fine un significato simbolico, che va oltre lo spazio e il tempo. Non indica solo che non si è fuggiti, e che si rimane al proprio posto, accanto agli altri. Che si continua a combattere, non si sa per quanto e con quale risultato, in un’incertezza che non è il problema.
A chi propaganda distruzione, e agita lo spettro del massacro finale, per portare a compimento l’eliminazione dell’avversario, si contrappone la vitalità dell’essere: lo stare nel corpo delle città, nel tessuto del paese, nella sofferenza della gente. Cioè nel presente della storia, la dimensione abitata dalla speranza, nella quale il terrore non può vincere.
Se «il nemico è talmente forte che per contrastarlo si deve usare tutta la forza a disposizione, questa guerra sbagliata non ha futuro» ha scritto con coraggio la poetessa russa Marija Stepanova: nessun dittatore infatti può infischiarsi, sino a questo punto estremo, della sorte dell’umanità.