“La Gran Bretagna ha scelto un festaiolo come leader. Adesso arrivano i postumi della sbornia”. È particolarmente laconico l’Economist nel riassumere i due anni e mezzo di premiership di Boris Johnson, il conservatore ex sindaco di Londra che nell’estate del 2019 sfrattò da 10 Downing Street la compagna di partito Theresa May per poi stravincere le elezioni contro i laburisti con la promessa di “Get Brexit done“.
Non è certo un reato essere un animale da festa, si potrebbe giustamente obiettare. Il punto, però, è capire quando esserlo. L’occasione scelta da Johnson – lo scorso 20 maggio – si è rivelata unanimemente inadatta: mentre in tutto il Regno Unito (e nella maggioranza d’Europa e del mondo) era controindicato uscire di casa se non per motivi di necessità e a distanza di sicurezza, il primo ministro dall’iconica capigliatura bionda si intratteneva con una quarantina di ospiti nel giardino di Downing Street per un aperitivo alcolico.
Per giorni interi il premier e i suoi sodali nell’esecutivo hanno portato avanti la cosiddetta “operazione Carne Rossa“, cercando alacremente di negare l’innegabile e arrampicarsi sugli specchi, distogliendo l’attenzione su questioni come il canone BBC. Alla fine, però, l’ex sindaco di Londra ha dovuto capitolare e ammettere le proprie colpe davanti alla Camera dei Comuni lo scorso 12 gennaio.
La confessione è stata possibilmente ancora più bizzarra delle precedenti smentite: il party a 10 Downing Street (residenza ufficiale del premier britannico) c’è stato, ma Johnson vi avrebbe partecipato solo per 25 minuti. Non solo: l’aperitivo sarebbe in realtà da equiparare a un evento di lavoro, e il giardino di casa a un vero e proprio ufficio. Almeno è questo ciò che Johnson pare avesse “implicitamente” dedotto in quell’occasione. Sulla questione, comunque, si è messa a indagare anche la polizia.

Il primo ministro non è nuovo a questo tipo di gaffes. Anzi, si potrebbe perfino considerare l’inclinazione agli strafalcioni – e all’interpretazione creativa della realtà – come uno dei veri fili rossi del suo personaggio pubblico. Ex giornalista, fu licenziato per aver falsificato una citazione e mentito ai superiori. Ex ministro ombra, fu cacciato da Michael Howard per aver mentito su una relazione extraconiugale. Ex sindaco di Londra, durante il mandato mentì alla moglie attraverso varie scappatelle che avrebbero portato al divorzio nel 2018. Ex segretario di Stato, fece le scarpe all’allora premier Theresa May per intestarsi il Governo.
Lo scorso settembre, Johnson ha finalmente rivelato la sua ambizione: superare il record di longevità al governo detenuto da Margareth Thatcher (11 anni, 6 mesi e 25 giorni). Quattro mesi più tardi, il suo esecutivo potrebbe invece venire ricordato come uno dei meno longevi del dopoguerra.
In molti, anche nel suo partito, si augurano infatti un passo indietro del premier, che però rimane piuttosto improbabile dato il carattere notoriamente orgoglioso di BoJo. Altrettanto improbabile è uno sgambetto dei suoi compagni di partito attraverso una mozione di sfiducia: se si dovesse andare ad elezioni, il ritorno al potere del Partito laburista del nuovo leader Keir Starmer sarebbe estremamente probabile.
C’è molto demerito di Johnson nella risalita dei laburisti dall’abisso elettorale in cui erano precipitati nel 2019 con Jeremy Corbyn – inviso alla maggioranza del Paese per le sue posizioni di estrema sinistra e per certe dichiarazioni anti-sioniste. Il Partito conservatore vinse quelle elezioni con il 43,6% dei consensi contro il 32,1% del centro-sinistra. Se si votasse oggi, stando ai sondaggi di Politico, i ruoli sarebbero stravolti e il capitombolo sarebbe tutto del centro-destra (precipitato al 33% contro il 40% del Labour). Va pure peggio per BoJo, che secondo un sondaggio di Ipsos MORI ha un misero indice di gradimento del 24%, laddove il 70% si dice insoddisfatto del suo operato.

Ciononostante, su almeno due punti gli va tributato l’onore delle armi: aveva detto che avrebbe finalizzato la Brexit, e l’ha fatto (come, poi, è un altro discorso). Aveva promesso che il Regno Unito si sarebbe ripreso presto dalla pandemia, e gli ultimi dati macroeconomici suggeriscono che l’economia di Londra è quella che registrerà la maggiore crescita nel G-7 nel 2022. Il desiderio di far percepire ai cittadini di Sua Maestà un ritorno alla normalità pre-pandemica è stato inoltre alla base dell’abolizione del grosso delle restrizioni anti-Covid 19.
Su buona parte del resto, però, il bilancio è molto più scuro: l’inflazione è ai massimi da 30 anni (5,4%), le tasse sui salari in aumento del 2,5%, mentre la carenza di personale medico-ospedaliero dovuta alla Brexit, unita ai ricoveri dovuti al Covid-19, rischia di mettere in lista d’attesa un quinto dei pazienti che si rivolgono al sistema sanitario nazionale (NHS).
Beninteso, non è certo tutta colpa di Johnson: l’inflazione è in vertiginoso aumento dovunque e gli ospedali hanno dovuto sospendere i ricoveri ordinari dappertutto. Tuttavia, affrontare la tempesta con un capitano senza più credibilità agli occhi del Paese, e il cui equipaggio non si è ancora ammutinato per mera convenienza politica, non è il migliore dei presagi. Che Dio salvi la Regina (e Boris).