Tanto fumo e poco arrosto per i due raid dell’Fbi nelle case di alcuni parenti dell’oligarca Oleg Deripaska a Washington e a Manhattan. Deripaska, “il re dell’alluminio” è uno dei più stretti miliardari russi legati a Vladimir Putin. Già indagato da Robert Muller nel Russiagate per aver arruolato alla sua corte Paul Manafort, che era il direttore della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016. Al centro di una battaglia poi vinta con il Dipartimento del Tesoro, grazie anche all’intervento del senatore Mitch McConnell per le sanzioni che gli erano state imposte nel 2018 a lui e a Igor Rotenberg, figlio del miliardario e amico stretto di Putin Viktor Rotenberg; Viktor Vekselberg, a capo del gruppo Renova e Kirill Shamalov, ex genero di Putin.
I motivi delle perquisizioni non sono stati resi noti e l’ufficio dello US District Attorney del Southern District, quello di Manhattan, non ha voluto commentare la vicenda, ma i legami mai del tutto rivelati tra Oleg Deripaska e Paul Manafort che è stato condannato a sette anni e mezzo per frode nell’ambito dell’inchiesta del procuratore speciale Robert Mueller, ripropongono tutte quelle domande mai sciolte dall’inchiesta sul Russiagate, il cui rapporto finale di quasi 500 pagine è stato ampiamente censurato. Lo scorso dicembre Paul Manafort è stato graziato dall’allora presidente uscente Trump. Graziato anche Roger Stone, l’eccentrico mastino dell’ex presidente, anche lui coinvolto nel Russiagate e condannato a 3 anni e mezzo di carcere e anche lui perdonato da Trump nonostante i provati contatti con Guccifer 2, uno dei numerosi siti dello spionaggio russo. E anche Steve Bannon, la mente politica dell’ex presidente, era stato arrestato e rinviato a giudizio per truffa dalle autorità federali e anche per lui c’è stato il perdono di Trump.

Dal Russiagate all’assalto al Campidoglio gli ingredienti per bloccare le indagini sono gli stessi: bugie ed omertà. La montagna di sospetti per ora si scontra con la carenza delle prove anche perché le barricate create dall’ex presidente per bloccare le indagini sulla sua amministrazione vengono ancora difese da larga parte del partito repubblicano.

Accuse riaffermate questa mattina dalla congresswoman del Gop Liz Cheney nel corso dell’audizione che si è tenuta alla Camera dei Rappresentanti. La parlamentare del Gop è intervenuta al dibattito per deferire alla giustizia ordinaria Steve Bannon, l’ex consigliere politico di Donald Trump che si è rifiutato di comparire davanti la commissione d’inchiesta sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Le sue sono state parole di fuoco, non tanto sull’ex presidente, ma sui suoi compagni di partito, nominando il leader della minoranza repubblicana alla Camera Kevin McCarthy, che si prestano alle sue bugie ben sapendo che sono bugie per paura che l’ex presidente dia l’ordine ai suoi seguaci di non votare i parlamentari che lo contraddicono. Poi, rivolta ai suoi colleghi: “Sapete che non ci sono prove di frodi elettorali in grado di capovolgere l’esito del voto. Sapete che questa accusa è falsa – dice riferendosi alle parole che Trump va ripentendo da mesi per giustificare la sconfitta – la democrazia è in pericolo. I governi autoritari sono nati perché le persone che avevano la possibilità di fermarli non lo hanno fatto. Dovete scegliere se stare dalla parte di quelli che hanno lanciato l’assalto alle istituzioni democratiche o dalla parte di quelli che le vogliono difendere. La storia vi giudicherà”.

Subito dopo c’è stato il voto unanime della Commissione per deferire Steve Bannon alle autorità federali. Manca ora solo il voto dell’intera Camera dei Rappresentanti. Toccherà poi alla Speaker, Nancy Pelosi, comunicare formalmente la decisione all’ufficio dell’Attorney di District of Columbia, competente per Washington, che poi chiamerà in causa il Grand Jury.
L’ex capo della strategia di Donald Trump ha ignorato le citazioni in giudizio per comparire davanti alla stessa commissione parlamentare che sta cercando di fare luce sull’insurrezione del 6 gennaio. Steve Bannon era stato chiamato a testimoniare davanti alla giuria, ma si è rifiutato di farlo. L’ex stratega di Trump, se condannato, rischia una multa e fino a un anno di carcere. E’ stato il guru politico dell’ex presidente durante la campagna elettorale del 2016. L’anno successivo, dopo vari screzi con Jared e Ivanka era stato allontanato. Negli ultimi mesi di presidenza di Trump, però, Bannon si era riavvicinato a lui, e secondo la commissione d’inchiesta della Camera lo aveva sostenuto nei suoi tentativi di ribaltare il risultato delle elezioni. Nel suo ultimo giorno da presidente Trump aveva inoltre dato la grazia a Bannon. Alcuni mesi prima, infatti, Bannon era stato arrestato con l’accusa di essersi appropriato delle donazioni raccolte per la costruzione di un muro in un tratto del confine tra Messico e Stati Uniti, allo scopo di fermare i migranti. Bannon ha giustificato il suo rifiuto a testimoniare sostenendo che le comunicazioni che coinvolgono il presidente degli Stati Uniti siano protette dal “privilegio esecutivo” (“executive privilege”), il diritto presidenziale a non rivelare determinati argomenti al Congresso.

Toccherà poi alla Speaker, Nancy Pelosi, comunicare formalmente la decisione all’ufficio dell’Attorney di District of Columbia, competente per Washington, che poi chiamerà in causa il Grand Jury.
Ma al Congresso in queste ore si dibatte anche il piano delle infrastrutture. Pare che un tipo di accordo sia stato trovato tra l’ala progressista e quella centrista del partito democratico alla Camera, mentre al Senato ancora resta la ferma opposizione del Senatore Manchin che insiste per i tagli al piano sull’ambiente. La Casa Bianca, vista l’intransigenza del senatore democratico della West Virginia, sta esaminando un piano alternativo.