E’ uno scontro senza esclusione di colpi tra la Commissione d’inchiesta del Congresso sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio e Donald Trump. Da una parte l’ex presidente nel tentativo di rallentare le indagini ha citato in giudizio la Commissione della Camera. Dall’altro i parlamentari che indagano sulla vicenda hanno messo al voto al Congresso la richiesta di deferire alla giustizia federale l’ex stratega politico di Donald Trump, Steve Bannon, che non si è presentato davanti alla Commissione per testimoniare. Una decisione “pesante” per sottolineare la mano dura che la Commissione userà contro i testimoni reticenti.
Un braccio di ferro tra quanti vogliono mettere alla luce il tentativo sovversivo dell’ex presidente per cercare di ribaltare il risultato elettorale del 3 novembre e quanti, invece, cercano di minimizzare la gravità dell’accaduto.

Nei giorni scorsi la Commissione ha richiesto ai National Archives tutti i documenti della Casa Bianca, comunicazioni telefoniche, messaggi e e-mail, pertinenti ai tentativi dell’allora presidente e dei suoi consiglieri, di trovare un cavillo per capovolgere il risultato elettorale. Su questa richiesta Donald Trump prima ha posto il privilegio presidenziale, poi, dopo che Joe Biden ha ordinato al National Archives di rilasciare le comunicazioni, si è rivolto alla magistratura per cercare di bloccarne il rilascio sostenendo che sono coperti dalla confidenzialità dei rapporti tra il capo dell’esecutivo e i suoi subordinati. La causa civile è stata intentata a nome dell’ex presidente dal suo legale, Jesse Binnall, presso una corte federale di Washington. Trump insiste sull’executive privilege, la facoltà del presidente di non rivelare informazioni, richieste da un altro potere, per esigenze di sicurezza nazionale o per tutelare il principio di confidenzialità nei rapporti interni all’Amministrazione. Nell’atto di citazione si sostiene che la richiesta di documenti da parte della commissione congressuale è “illegale, infondata e troppo ampia”, definendola anche “di portata quasi illimitata”, una scusa dei democratici per continuare a “molestare Trump e i suoi collaboratori inviando una richiesta illegale e infondata di documenti custoditi ai National Archives” si afferma nel documento. Nell’atto di citazione vengono nominati espressamente il presidente del comitato ristretto – il congressman Bennie Thompson – e il responsabile dei National Archives David Ferriero.
Secondo i membri della Commissione d’inchiesta si tratta solo del tentativo dell’ex presidente di cercare di rallentare i lavori da parte della commissione. Tesi affermata da Politico che la definisce “un tentativo di Trump per cercare di bloccare il rilascio dei documenti della Casa Bianca su quanto detto e fatto dall’ex presidente nei giorni prima e durante l’attacco a Capitol Hill”.
Nei giorni scorsi il presidente Joe Biden ha affermato che non riconosce il privilegio esecutivo su una inchiesta così importante che cerca di far luce sul tentativo di insurrezione.
Per l’ex presidente, comunque, non sono momenti di tranquillità. Ieri ha dovuto testimoniare per oltre 4 ore in una vicenda in cui alcuni agenti della sua sicurezza nel marzo del 2015, quando ancora non era presidente, spintonarono dei dimostranti che manifestavano davanti al Trump Building sulla Quinta Avenue. Secondo l’accusa gli agenti privati della sicurezza sarebbero intervenuti dopo le sollecitazioni di Trump. Una testimonianza che l’ex presidente ha cercato di ostacolare in tutti i modi che è avvenuta solo dopo che un giudice d’appello federale ha convalidato la decisione di un magistrato di primo grado. Una tattica ripetitiva quella dell’ex presidente di citare in giudizio quanti per primi si sono rivolti alla giustizia. Accanto al presidente, in quella particolare circostanza, c’era anche Matthew Calamari, il Chief Operating Officer della Trump Organization, attualmente sotto inchiesta da parte della procura distrettuale di Manhattan per le frodi fiscali che sarebbero avvenute nelle società del presidente. L’indagine è ancora in corso e il Chief Operating Officer della compagnia, Allen Weisselberg è stato incriminato per evasione fiscale.
Poi c’è la vicenda che vede l’ex presidente in tribunale con sua nipote Mary Trump autrice del best seller Too much and never enough, una graffiante biografia dello zio che l’ex presidente non ha gradito e che ora, dopo la pubblicazione del libro, cerca di punire la nipote chiedendo il risarcimento di parte dell’eredità del nonno. Poi c’è quella di Summer Zervos, ex partecipante allo show televisivo di Donald Trump The Apprentice, che dopo averlo accusato di molestie sessuali lo ha citato in giudizio per diffamazione. Così come quella di Jean Carroll, che dopo aver accusato Trump di averla violentata nel camerino di un negozio di abbigliamento è stata chiamata “bugiarda” dall’ex presidente e la donna lo ha citato in giudizio anche lei per diffamazione.
C’è poi l’indagine del District Attorney della Contea di Fulton, in Georgia, sulla telefonata fatta dall’ex presidente al segretario di Stato Brad Raffenspenger al quale chiedeva di trovargli 7 mila voti.
In questo clima così pesante per l’ex inquilino della Casa Bianca è uscito in questi giorni il libro di Michael Wolff, Too Famous: The Rich, the Powerful, the Wishful, the Notorious, the Damned. Secondo l’autore Jeffrey Epstein credeva di poter raggiungere un accordo con gli inquirenti che indagavano sui suoi turpi traffici sessuali rivelando i segreti di Bill Clinton e Donald Trump, i cui nomi sono stati spesso associati al finanziere newyorchese accusato di pedofilia e morto misteriosamente in carcere a New York. Wolff racconta come il finanziere fosse convinto di essere stato arrestato su direttiva dell’allora presidente Trump che avrebbe voluto informazioni riservate per danneggiare i Clinton. Bill Clinton era stato più volte ospite sul jet privato del miliardario newyorchese, alimentando i sospetti di un suo coinvolgimento nello scandalo sessuale. Epstein, inoltre, pensava che lo stesso Trump avesse paura di lui. Wolff scrive come durante una visita nella lussuosa dimora del finanziere a Manhattan, mesi prima del suo arresto ricevette una telefonata di Steve Bannon, che definisce uno scaltro avventuriero, che temeva che Epstein potesse rivelare ad Hillary Clinton i segreti di Trump ed usarli durante la campagna elettorale del 2016.