I fatti sono la cosa più ostinata del mondo, ricorda Michail Bulgakov, lo scrittore russo autore di Cuore di cane e de Il maestro e la margherita. Dai fatti, conviene dunque parlare; nel caso in questione, sono fatti che riflettono una realtà amara, che non fa sconti: l’ultimo rapporto della Commissione europea sulla Giustizia (si riferisce al 2019), colloca l’Italia ultima in classifica nell’Unione Europea per quello che riguarda i tempi della giustizia civile: per la sentenza di primo grado l’attesa può arrivare fino a 500 giorni. Per una sentenza definitiva si può arrivare a 1.300 giorni: quattro anni. Ogni anno in Italia si aprono circa 4 milioni di cause civili, commerciali e amministrative. Secondo la Commissione europea il buon funzionamento del sistema giudiziario ha effetti positivi su investimenti, produttività e concorrenza. Ovviamente se questo funzionamento è pessimo, gli effetti saranno (come effettualmente sono) negativi: sfiducia di investitori stranieri, fuga di quelli “indigeni” verso mercati più efficienti.
C’è poi il settore penale, le tantissime condanne della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per l’irragionevole durata dei processi; ormai “normale” violazione dell’articolo 13 della Costituzione: “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Per non parlare del successivo, articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”.
Bruxelles e l’Unione Europea su questo, attendono l’Italia al varco: la giustizia è uno dei punti essenziali per ottenere i fondi del Recovery. Ogni altro discorso non ha ragion d’essere.
E invece… Gran discutere sulle proposte di riforma del ministro della Giustizia Marta Cartabia. In particolare quell’ala del Movi/Mento 5 Stelle che fa capo a Giuseppe Conte (posizione molto più sfumata e possibilista quella assunta dall’ala “governista”, incarnata da Luigi Di Maio). Pietra dello scandalo, la prescrizione: vale a dire il fatto che trascorso un certo periodo di tempo, il reato non è più perseguibile.
La durata eccessiva dei processi (che l’Unione Europea sanziona e condanna) non dipende tanto dalla volontà delle parti di allungare i tempi. Piuttosto è “figlia” della disorganizzazione degli uffici giudiziari: questa, in Italia, è la vera causa dei tempi intollerabilmente lunghi. Di conseguenza, prescrizione non è tanto un artificio per sfuggire alla condanna; piuttosto uno strumento di tutela del cittadino contro gli effetti delle lungaggini della giustizia di cui non è responsabile. Un qualcosa di endemico, e ormai “storico”. Lo Stato finora non ha saputo (e voluto) organizzarsi in modo da garantire la ragionevole durata del processo così come la Costituzione prevede. L’amministrazione della giustizia, deve garantire l’efficienza del sistema. Non è quello che accade; da sempre. Una classe politica degna di questo nome, di questo dovrebbe preoccuparsi e occuparsi.

Il compromesso costituito dalla riforma Cartabia non è, e non pretende di esserlo, la panacea di tutti i mali della giustizia. E’ un inizio; un punto di partenza. C’è per esempio tutto il capitolo dei riti alternativi da assicurare e garantire: sono essenziali per ridurre il numero dei processi in dibattimento. Potenziare la possibilità di ricorrere al patteggiamento e al rito abbreviato darebbe un sostanziale contributo all’eliminazione dei processi che intasano le aule dei tribunali.
E’ in questi contesto che è arrivata nei giorni scorsi l’allarmata diagnosi del presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick: “Si riesce a trasformare in un conflitto politico una constatazione di tradimento della Costituzione“.
Il problema di fondo è superare un clima di sfiducia da parte di quanti a vario titolo (politici, magistrati, avvocati, burocrati in senso ampio, operatori dei media), sono coinvolti nella gestione della giustizia.
C’è poi un contesto. E’ importante comprenderne i contorni, se si vuole cercare di capire quello che si agita, e perché; come mai, pur disponendo di una potenziale ampia maggioranza parlamentare, il presidente del Consiglio Mario Draghi incontra le maggiori difficoltà proprio dalla coalizione che lo sostiene; e deve fare ricorso a tutte le sue doti diplomatiche e alle sue riserve di pazienza e capacità di sopportazione.
Si può cominciare dal Movi/Mento 5 Stelle. La creatura di Beppe Grillo versa in innegabile crisi, ma dispone ancora di una discreta forza in questo Parlamento; nel Paese può comunque vantare uno zoccolo duro di “irriducibili”. Come sia, hic et nunc, alla Camera dei deputati, ma soprattutto in Senato, con loro tocca fare i conti: esistono. Non sono però un blocco monolitico: Beppe Grillo è sempre più un monarca che regna, ma non governa. Le sue “sparate” via internet e blog possono conquistare qualche ritaglio di giornale e minuto nei notiziari televisivi; come da tradizione, la carne se la disputano vassalli, valvassori, valvassini. In questo caso, la contesa è tra il cosiddetto filo-governativo Luigi Di Maio e l’aspirante Giuseppe Conte. La pratica governativa non più di primo pelo di Di Maio lo ha affinato, lui punta al sodo: conquista ai suoi fedeli e sodali quante posizioni di potere reale possibili nelle varie articolazioni dello Stato. Personaggi che ai più dicono poco o nulla, ma che “pesano” e soprattutto non “passano”, restano nei posti chiave, e non sono toccati dai giri di valzer della politica ufficiale.

Conte in questi giorni è un po’ come Maria Sarti: la ballerina romana che sogna di diventare una vera attrice di prosa, non ne ha in numeri e si riduce a improvvisarsi cantante in un cabaret napoletano. Deve la sua “fortuna” alla “mossa”: quel movimento d’anca che scandalizza i benpensanti e le procura un processo per oscenità. Conte, insomma, è una Ninì Tirabusciò della politica. Cerca di darsi un’immagine contestando le proposte di riforma sulla giustizia elaborate da Cartabia. Fa la “mossa”, dimenticando che Di Maio e gli altri ministri del M5S quelle proposte le hanno lasciate passare, nei consigli dei ministri, senza batter ciglio. Cerca di cavalcare il malcontento malamente espresso da un gruppo di magistrati “giustizialisti”, non tiene conto del fatto che il pur sempre cauto e felpato presidente della Repubblica con decisione ha riportato a ragione un Consiglio Superiore della Magistratura che in parte si è sentito in dovere di esercitare addirittura una bocciatura preventiva, dimentico di come sia poco credibile dopo le clamorose rivelazioni dell’ex magistrato Luca Palamara.
In questi giorni si è assistito a un tira-e-molla per tanti versi patetico e deprimente. Ognuno doveva marcare dei territori per giustificare i propri cedimenti, e si è prodotto in rigidità sterili e di bandiera. I risultati sbandierati al termine di sfiancati trattative e mediazioni, riguardano tutto sommato dettagli: qualcosa che consente a Conte di poter dire che ha fatto la “mossa”.
La corda il M5S la può tirare fino a un certo punto: rischiano che i loro voti siano altri, ad assicurarli, e questo provocherebbe al loro interno un ulteriore tsunami: non ne hanno proprio bisogno. Conte fa la faccia feroce, poi viene a più miti consigli: non ha la sponda del Quirinale, che invece ha un ottimo rapporto con Draghi.
Cartabia, del resto, ha subito messo le cose in chiaro: “Non è vero che i processi per mafia e terrorismo andranno in fumo. I procedimenti puniti con l’ergastolo sono improcedibili e per i reati più gravi si prevede una possibilità di proroga”. Il Quirinale ha già fatto sapere di non vedere “problemi” nella versione finale del testo. Un “ombrello” che spazza via polemiche e tentativi di speculazione strumentale.
Si può prendere in prestito, arrivati a questo punto, lo slogan della catena Wendy’s e poi ripresa da Walter Mondale quando cercava di contrastare Gary Hart: “Where’s the beef?”. (Dove va sta la carne?)
Ancora una volta si assiste a scontri sulla giustizia fondati sulla totale (e scandalosa) mistificazione della realtà, per ottenere norme di valore simbolico e mediatico da spendere in favore di telecamera. Come avvertono i più stimati e attenti giuristi, da sempre in Italia gli unici processi che vengono celebrati in tempi ragionevolmente rapidi sono proprio quelli per reati di mafia e di grande traffico di stupefacenti, che secondo tanti sarebbero finiti in fumo; si tratta, per inciso, di reati da sempre sostanzialmente imprescrittibili: si tratta, nella quasi totalità dei casi, di processi con imputati detenuti, che devono concludersi prima della scadenza dei termini di custodia cautelare; in appello quei termini sono largamente inferiori ai tre anni originariamente previsti dalla prescrizione processuale proposta dalla riforma Cartabia.
Dunque? Resta il definitivo superamento della pseudo riforma Alfonso Bonafede della prescrizione: la più vergognosa “riforma” della storia repubblicana.
Ancora: si è assistito all’ennesima penosa manifestazione della sovranità limitata della politica: in tema di giustizia penale, in Italia, ancora una volta “governa” sempre la magistratura, che detta legge con le sue bocche di fuoco mediatiche e con le sue legioni di magistrati distaccati ad occupare i gangli vitali del potere esecutivo ed in particolare del ministero di Giustizia.
Può piacere o meno, ma la vera riforma liberale della giustizia resta quella che separerà le carriere di giudici ed inquirenti, e vieterà il distacco dei magistrati nei ministeri.
A questo punto conviene ascoltare (e meditare) quanto promettono Draghi e Cartabia.
Draghi: “La responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato. Il Governo non ha intenzione di dimenticare. Non può esserci rieducazione dove c’è sopruso. La Costituzione italiana sancisce all’articolo 27 i principi che devono guidare lo strumento della detenzione. ‘Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’…A questi principi deve accompagnarsi la tutela dei diritti universali: il diritto all’integrità psicofisica, all’istruzione, al lavoro e alla salute, solo per citarne alcuni. Questi diritti vanno sempre protetti, in particolare in un contesto che vede limitazioni alla libertà”.

Cartabia: “Lo sappiamo, e lo sa bene chi ci vive e lavora in carcere che la pandemia, le tensioni, le rivolte, il sovraffollamento, le tante carenze strutturali ha fatto di quest’ultimo anno un anno particolarmente difficile per il carcere. Ma non possiamo solo inseguire le emergenze ma occorre progettare a lungo termine. Bisogna prevenire e guardare con prospettiva lunga…”.
Costituzione, diritto, progettualità a lungo termine: queste, dunque, le parole chiave usate dal presidente del Consiglio e dal Guardasigilli. Un respiro politico lungo.
Ancora il “Where’s the beef?”. La carne delle questioni cui si deve puntare, per esempio, è quella riforma del pianeta carcere che sciaguratamente l’ex ministro Bonafede ha bloccato. Quella riforma dell’ordinamento penitenziario voluto da Andrea Orlando e che il Partito Democratico (il partito di Orlando), dovrebbe assumere come bandiera. Se non ora, quando? Cartabia non lo manda a dire: “Il sistema penitenziario va riformato”.
Nella sua riforma Cartabia prevede anche una rivisitazione della disciplina delle sanzioni sostitutive applicabili dal giudice di cognizione al posto della pena detentiva. Si sposta così al giudice del processo il compito di individuare sanzioni diverse dal carcere; sanzioni che sarà possibile applicare contestualmente alla sentenza, con evidente ristoro per quel che riguarda il sovraffollamento in carcere. Abolite semidetenzione e libertà controllata; aumentati da sei mesi a un anno il limite di pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria; le pene fino a tre anni possono essere sostituite con lavori di pubblica utilità; possibilità di sostituire condanne fino a quattro anni con semilibertà o detenzione domiciliare. Misure che il giudice potrà scegliere in luogo alla detenzione, se riterrà che favoriscano la rieducazione del condannato e se non vi sia rischio di recidiva.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), prevede la spesa di 123,9 milioni di euro in quattro anni per la costruzione di padiglioni da 120 posti ciascuno e il miglioramento degli spazi di 8 strutture penitenziarie: Santa Maria Capua Vetere; Rovigo; Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Ferrara e Reggio Calabria. L’auspicio è che si riesca finalmente a realizzare quel piano omogeneo di cui parla il Ministro Cartabia, e che risponda a ormai croniche emergenze: sovraffollamento carcerario, misure alternative, rieducazione dei detenuti, formazione e assunzioni per la polizia penitenziaria e videosorveglianza; quelle che il ministro definisce “questioni irrisolte che hanno una data antica”.
Per ora, la pratica è chiusa; raggiunto un accordo almeno di facciata e che consente ai vari attori politici di salvare in qualche modo la faccia, se ne apriranno a breve, immediatamente altre: le elezioni amministrative, fatalmente di significato politico: il comune di Roma in particolare; la possibile candidatura a Siena del segretario del Partito Democratico Enrico Letta; infine la “partita” per il successore di Sergio Mattarella. Con non marginali appendici: la nuova legge elettorale, prima della fine della legislatura; e una nuova “geografia” per quel che riguarda i posti chiave in RAI, reti, divisioni e radio-telegiornali. Si avrà modo di parlarne. La torrida estate italiana è agli inizi…