Ogni giorno l’agenda del presidente Biden si arricchisce di nuovi problemi da risolvere. Dopo l’approvazione dello stimolo economico per aiutare le famiglie americane colpite dalla pandemia e rilanciare l’economia, è costretto suo malgrado ad affrontare il problema dell’immigrazione con migliaia di persone che da settimane bivaccano in Messico cercando di entrare negli Stati Uniti. Un tema molto complicato da risolvere con un Senato equamente diviso e con molti senatori del suo stesso partito che la riforma non la vogliono fare.
Per cercare di spostare l’attenzione da questo spinoso problema Biden prepara un progetto da 3 mila miliardi di dollari per le infrastrutture. Un piano lungamente dibattuto, ma non realmente affrontato. Biden lo ha preparato nelle settimane scorse e ora ha deciso di rallentarlo per cercare di ottenere anche l’appoggio dei repubblicani, una cosa non impossibile visto che si tratta di rinnovare autostrade, porti e aeroporti, università pubbliche ed asili nido per tutti e 50 gli Stati dell’Unione. Bocciare questo piano non avrebbe molto senso e, soprattutto, non converrebbe a nessun parlamentare.
Ma ecco che mentre voleva trovare una intesa con il partito d’opposizione l’agenda dei lavori viene sconvolta con una seconda strage in una settimana. Una tragedia che ha la precedenza e che lo costringe a spingere per la riforma dell’acquisto delle armi, riforma già approvata alla Camera dei Rappresentanti ma nel “limbo” al Senato perché molti democratici sono contrari a cambiare le regole attuali.
Il senatore Joe Manchin, democratico della West Virginia, non vuole che nella riforma venga proibita la vendita privata delle armi. Un fatto questo che gli estensori della legge vedono come un sotterfugio per evitare i controlli per acquistare un’arma. Già comprare un’arma è di per sé molto facile, salvo alcune eccezioni. Nella città di New York, ad esempio, è pressoché impossibile. Ma è una eccezione.
Secondo la ricerca condotta da Pew-Harvard NorthEstern si calcola che negli Stati Uniti ci siano quasi 400 milioni di armi da fuoco, il 40% degli americani ne hanno almeno una. E questi sono i numeri “legali”. La campagna dei repubblicani, che difendono a spada tratta il secondo emendamento della Costituzione che permette l’acquisto delle armi, è quasi un messaggio subliminale, possederne una è un atto di patriottismo. Concetto questo che ha fatto presa su gran parte degli americani. Ed ecco che tutte le restrizioni una volta che difficilmente passano al Congresso, vengono bocciate dagli elettori che penalizzano quei parlamentari che hanno volute mettere un freno alla vendita delle armi. Così il partito che si era opposto alle restrizioni vince le elezioni, ottiene la maggioranza e annulla tutte le limitazioni fatte dalla precedente amministrazione. E questa è l’altalena delle restrizioni e del loro annullamento che va avanti sin dai tempi dell’attentato a Ronald Reagan che in rispetto al grave ferimento del portavoce della Casa Bianca James Brady nel 1981 cominciò la battaglia.
La legge che proibiva l’acquisto delle “armi d’assalto” fu partorita dieci anni dopo e venne subito cambiata dall’amministrazione successiva. In pratica chi al parlamento cerca di cambiare le attuali leggi sulle armi corre il forte rischio di non venire rieletto. Una impresa titanica nella quale non ci riuscì neanche l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg che creò un superPAC con milioni di dollari per sponsorizzare le campagne elettorali di tutti quei parlamentari di entrambi i partiti favorevoli a mettere restrizioni per la vendita delle armi.
Joe Biden cerca di portare avanti la sua agenda ma le situazioni inaspettate lo costringono a cambiare rotta e immediatamente i parlamentari trumpiani lo attaccano. Ieri è stata la volta del congressman Mel Brook, che ora punta al seggio che Richard Shelby lascerà a fine mandato in Alabama. “Vogliono toglierci i nostri diritti costituzionali” ha urlato alla Camera. Mel Brooks è il parlamentare che era sul palco con Trump il 6 gennaio che prima del presidente gridava che le elezioni erano state truccate.
A questo proposito si è creata una situazione comica in tribunale. I legali che difendono l’ex avvocato di Donald Trump, Sidney Powell, citata in giudizio per diffamazione dalla Dominion, la società che costruisce le machine elettorali dopo che per mesi aveva detto che le elezioni erano state truccate la loro complicità, hanno affermato che le dichiarazioni della loro assistita non possono essere considerate diffamanti perché “non sarebbero mai state accettate da persone ragionevoli”.

Donald Trump invece sta pensando di creare una sua rete di comunicazione per ovviare alla censura che Twitter e Facebook gli hanno fatto. In una intervista a Fox News il suo fedelissimo Jason Miller ha detto che l’ex presidente darà vita tra un paio di mesi a questa nuova piattaforma. Miller non ha voluto fornire particolari sui costi dell’operazione e sugli sponsor pubblicitari. Un fatto molto importante per l’ex presidente dato che secondo Mike D’Antuono, autore del libro Never Enough, Donald Trump and the pursuit of success, si trova in una grave situazione finanziaria. Ad aggravare la situazione dell’ex presidente anche le indagini della procura distrettuale di Manhattan. Si è saputo oggi che gli inquirenti hanno interrogato giorni fa il fiscalista della Lazar, la ditta contabile che ha certificato i bilanci della Trump Organization. Non è trapelato nulla, ma il solo fatto di averlo interrogato rivela l’esame capillare che gli inquirenti stanno facendo alle tasse dell’ex presidente. Infine, nelle indagini per l’assalto al Congresso emergono nuove pesanti connection tra Roger Stone e i gruppi eversivi di estrema destra che avrebbero coordinato l’assalto del 6 gennaio. Gli inquirenti finora hanno arrestato 400 persone. Una parte delle indagini puntano proprio nella ricerca dei legami tra questi gruppi eversivi e le persone legate a Trump che con l’invasione del Congresso avrebbero volute bloccare la certificazione al Senato della vittoria elettorale di Biden.