Che gli siano saltati i nervi? Ai numerosi leader e supertecnici europei che, fra Venerdì scorso e oggi, su AstraZeneca, hanno scritto e deciso tutto e il suo contrario? Prima, si sospende solo un lotto (Venerdì: Italia e Irlanda, che “raccomandava la sospensione”); poi, lunedì, Merkel congela tutto, seguita a ruota da Italia, Francia e Spagna.
Prima, Domenica, AIFA (l’agenzia italiana del farmaco), nega che ci sia da preoccuparsi (“ingiustificato allarme sulla sicurezza del vaccino Covid AstraZeneca”): il giorno dopo, tutto sospeso. Infine, oggi, si riparte. Cos’è, abbiamo scherzato?
L’ipotesi dei nervi a pezzi si potrebbe spiegare, del resto. E’ condizione molto diffusa, ad un anno netto dall’inizio dell’epidemia; alla terza ondata in corso, quella delle “varianti”; a seguire, perciò, due fasi di speranza/delusione che avevano già segnato le nostre vite, giunte, così, ad un’ulteriore prova: proprio quando il rimedio finalmente sembra, ed in effetti è, visibile, reale, disponibile. Perciò, la tensione. Ma fino a un certo punto.
Intanto, perché i nervi a pezzi sono un lusso: che, come ogni lusso, non sempre e non tutti si possono permettere. Diciamo che, assunta l’unanime metafora bellica, “in guerra col Covid”, proprio i Comandanti in Capo, i nervi a pezzi, non se li possono permettere. Se l’ipotesi neurologica fosse fondata, semplicemente, dovrebbero lasciare a mano.
E’ tesi che, però, non convince. Non tutti sono al fronte dal primo giorno: Draghi, in primo luogo. E il neo Presidente del Consiglio, ha già ampiamente dimostrato di avere, proprio nei nervi saldi, una delle sue migliori e più sicure virtù: a cominciare dal celeberrimo Whatever it takes, pronunciato e imposto nel bel mezzo di un’altra tempesta mondiale. Sicché, sarebbe ingeneroso un giudizio così impietosamente generalizzante. Ma anche gli altri decisori politici, nel complesso, hanno fin qui agito con ragionevolezza; e, pur fra qualche iniziale smarrimento, si può dire pure con prontezza.
Ci sarebbero ancora da considerare i cd tecnici: questo nuovo soggetto del “discorso pubblico”: dall’immunologo al virologo, dal biologo al farmacologo, in più o meno costante diretta social e TV, senza dimenticare questo o quel centro di consulenza e di cooperazione, governativa o privata. I quali, così comparendo, hanno più frequentemente perso le proverbiali occasioni per tacere, di quanto non abbiano chiarito, illuminato, diffuso, una pubblica scienza su Covid, protezione individuale e sociale, e ora, vaccini. E il rammentato “contrordine” di AIFA, valga quale epitome di una sovraesposizione comunicativa tanto infelice ed infeconda.
Forse, allora, la girandola a cui abbiamo assistito ha una spiegazione meno personalistica. E più profonda.
C’è una parola che, se non spiega tutto, almeno spiega molto: “Precauzione”. Addirittura declinata nella solenne formulazione di un “Principio”: “Principio di Precauzione”.
Immagine (nulla di più consistente, in tutta franchezza) di incerto statuto giuridico: nasce in seno alla Conferenza sull’Ambiente di Rio de Janeiro del 1992, e da lì verrà letteralmente “spalmata” in varie altre sedi; Trattato di Maastricht, Costituzione Europea, Organizzazione Mondiale del Commercio e così via.
Esso vale a sancire una sorta di “moralità delle buone intenzioni”, che dovrebbe presiedere più o meno a tutto. Il che, certo, conforta ogni animo candido, senza tuttavia impegnare realmente nessuno. A questo “Principio”, per avere un’idea meno lunare, si riconduce anche il famoso (o famigerato) “consenso informato” in materia medica: notoria, la sclerosi burocratica in cui, sin dal suo primo apparire, subito si risolse. Perciò, qui, si scivola.
S’intende come non sia in discussione la prudenza in quanto tale: come regola, esiste ed è stata imposta, anche formalmente, sin dal diritto romano. Solo che, fin’ora (diciamo; all’era pre-digitale), la prudenza richiesta era quella di un autore in carne ed ossa, capace di azioni determinate e, dunque, accertabili piuttosto precisamente.
Gli effetti grotteschi del tipo di quelli a cui abbiano assistito, dipendono, pertanto, non dalla previsione della prudenza in sè; ma, invece, dal carattere di “novità”, dall’aspettativa di “inedito”, di “risolutore”, che un tale preteso “Principio di ultima generazione” finisce col suscitare.
Lo statuto giuridico è saponoso, perché equivoca ne è la matrice culturale. L’ubriacatura di cui sopra è, allora, di ordine culturale. Le più perniciose, com’è noto. Non se ne vanno nemmeno con un intero bricco di caffè.
L’equivoco consiste, esattamente, nella pretesa per cui, in un tempo “tecnologicamente progredito”, “basti” predisporre “un sistema a risposta automatica”, per prevenire i rischi necessariamente implicati dall’atto del “decidere”. Che, tanto più nell’ambito politico ed istituzionale, invece, è, e insuperabilmente rimane, atto tipicamente umano e non automatico: discrezionale, incerto, “ragionato”, e mai interamente “meccanizzato”. Soprattutto, infine, per tutti questi caratteri, espone a responsabilità: e al costante rimpianto per la scelta omessa. Per “l’altra cosa che si poteva fare”.
Ma solo così, col rischio di commettere un errore, una scelta è una scelta, e non un’estrazione a sorte, più o meno “algoritmicamente assistita”.
Solo così la politica rimane faccenda seria, riconoscibile, e rispettabile. Cioè, libera e democratica. L’altalena su AstraZeneca ha mostrato dove può condurre questa pretesa di annacquamento della volontà politica; questa ricerca di uno schermo pseudogiuridico dietro cui non decidere; questo lasciare che “il meccanismo” dica da sè: questo regredire dal governo all’oracolo.
E’ una malattia mondiale. Un’altra epidemia. E minaccia di durare molto più a lungo di quella sanitaria. C’è tanto lavoro da fare, pertanto. Che sia un’ “Astuzia del Covid”?.