L’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca e l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi sono le due colonne geopolitiche del ricostituito tempio euroatlantico. Il primo come guida della più antica democrazia del mondo e prima potenza mondiale, il secondo come autorità internazionale che ha salvato l’euro, la moneta che ha scongiurato la disgregazione dell’Occidente. Biden riporta la luce del multilateralismo dopo le tenebre dell’isolazionismo nazionalista di Trump. Draghi interviene a correggere una deriva populista che rischiava di far sbandare l’Italia, facendone il tallone d’Achille dell’integrazione europea. Ma è sull’arrivo di Draghi che l’agone politico ha visto giravolte interne così dirompenti, da avere un effetto dirimente anche a livello internazionale. I grandi protagonisti di questa celebrazione del darwinismo applicato alla politica sono, seppure in modo diverso, il M5S e la Lega. Vediamo in che senso.
Sono passati quasi otto anni dal famoso streaming in cui il duo grillino Lombardi-Crimi prese a pesci in faccia un tramortito Bersani, fresco reduce dalla “non vittoria”. Politicamente, un’era geologica fa. Renzi era solo lo scalpitante sindaco di Firenze che contro Bersani aveva perso le primarie. Enrico Letta stava per infilarsi nel pantano di un governo di coalizione con Forza Italia, da cui ne uscirà solo scomparendo dall’agone politico. Berlusconi veniva interdetto dalla politica, ma senza mai perdere (per il suo giganteggiare sulla propria creatura) il potere di interdizione sulla nascita di un centrodestra maturo, europeo, liberato da populismi e sovranismi.

Tante cose sono cambiate! Ma il soggetto politico che negli anni ha presentato il più alto tasso di cambiamento è senza dubbio il M5S. D’altro canto, avevano annunciato se stessi come “il cambiamento”. Su questo dobbiamo dire che sono stati di parola. Certo, stando alle vicende degli ultimi due anni e mezzo, ossia da quando il M5S è al governo (gialloverde e poi giallorosso), si potrebbe obiettare che il cambiamento dei ragazzi dei meetup di Grillo sia stato in realtà un adattamento all’esistente, e pure a tutto tondo. L’ennesimo caso di “romanizzazione dei barbari”, come accadde con la calata dei leghisti nell’Urbe, a metà anni Novanta. Un anticonformismo antisistema, sbandierato ai quattro venti, che dagli scranni del parlamento prima e sui banchi del governo poi diventa ultra conformismo, alla velocità della luce.
Tuttavia, sempre di cambiamento si tratta. Anzi, quello a cui abbiamo assistito è stata una vera e propria metamorfosi.Le alleanze da inaccettabili sono diventate così ben accette che praticamente tutti, tranne il partito di Giorgia Meloni, sono stati alleati dei grillini. Incluso il fu “partito di Bibbiano”. Oggi, il Partito Democratico non vuole più togliere i bambini alle famiglie a colpi di elettroshock. Oggi è il perfetto alleato con il quale progettare addirittura un apparentamento a lungo termine (salvo ovviamente i cataclismi delle ultimissime ore). E le auto blu? Maledette un tempo, ora sono normali strumenti di lavoro. Idem le “famigerate” scorte e il tanto bistrattato aereo di Stato, che la stampa grillina, quando prima di diventare pretoriana picchiava contro “la casta”, ribattezzò con zelo Air Force Renzi. E poi c’è la TAP che non è più opera del demonio. Il feroce manettarismo che diventa subito docile garantismo con chi veste la stessa casacca. La regola del secondo mandato che finisce nel cestino, dopo un breve passaggio per la genialata del “mandato zero”. L’elenco è infinito.
Piuttosto notevoli gli ultimi due dietrofront. La lotta fascistoide per il vincolo di mandato che diventa all’istante ecumenica caccia ai disponibili, chiunque essi siano, basta che abbiano un seggio sotto le terga. E quello sui senatori a vita, della cui longevità Grillo si era lamentato, ma che poi erano diventati l’esile appiglio (poi rivelatosi vano) per la sopravvivenza del Conte bis. Solo un aspetto nel tempo ha resistito a oltranza: l’euroscetticismo, se non addirittura l’antieuropeismo. Certo, non più nelle forme primordiali dove la UE era dipinta come una Spectre che tramava ai danni dei popoli europei, o dove l’uscita dall’euro veniva indicata come un imperativo morale. No. Anni di parlamento hanno dato i loro frutti in termini di gestione dell’estetica.

Ultimamente la scena è stata calcata indossando una veste istituzionale, tanto nelle parole quanto nelle pose. Alla fine però, la capitolazione anche su questo punto. “Europeismo” e addirittura “atlantismo” sono le inedite parole d’ordine della nuova verginità politica di Luigi Di Maio, che ora definisce candidamente il M5S nell’era Draghi come un movimento “moderato” e “liberale”. Welcome Luigi!
E sia chiaro, chi afferma che tutte queste inversioni a 180 gradi dovrebbero essere vissute con gioia dai detrattori del grillismo delle origini, ha ragione in pieno. E a nulla vale opporre il legittimo sospetto che si tratti di mero opportunismo. Quello che conta è il risultato, sempre e soltanto il risultato! Ed è un dato di fatto, politicamente enorme, che la Commissione von der Leyen veda il M5S tra i suoi sostenitori. E non in un momento storico qualsiasi, ma all’indomani dell’appuntamento elettorale (maggio 2019) in cui le forze sovraniste d’Europa avrebbero dovuto soverchiare la “terribile tirannia degli europeisti”. Vista la malaparata, con i sovranisti in forte crescita ma fermi complessivamente a un quinto dei voti, il M5S ha reagito, si è riposizionato, ha contribuito a formare la “maggioranza Ursula” in Europa. Ottimo! Chi sale sul carro dei vincitori sia sempre il benvenuto!
Infine, la Convention grillina di ieri, dove il Movimento ha sancito definitivamente l’inizio della sua trasformazione anche formale in partito. Un partito lo è stato nei fatti quasi da subito, con le sue correnti e bisticci interni. Ma la presenza della diarchia dei fondatori/proprietari Grillo e Casaleggio ne ha sempre mantenuto esteriormente una facciata da comune anni Settanta. Ora si chiude con quella fase. Grillo affida a Conte il compito di rifondare, ossia di strutturare il M5S, facendone di fatto il capo politico indiscusso. Un gesto che inquadra Conte come capo di partito, sottraendone in parte le credenziali di gran federatore di alleanze, come quella in pentola con PD e LeU. Resta da chiedersi se il PD (LeU di certo non altro scampo) accetterà di fare il gregario di un’alleanza dove pure, a quanto sembra, starà sopra coi numeri. E se la “Ditta” lo accetterà quasi di sicuro, altrettanto faranno i riformisti di Guerini? Ma poi, siamo sicuri che un M5S con Conte a capo non dissangui il PD dell’inerte Zingaretti?

Seppur in modo assai diverso, la stessa capacità di rispondere al divenire degli eventi va riconosciuta alla Lega, sulla quale però c’è molto poco da dire, quasi nulla. In parte perché la “svolta” europeista è cosa degli ultimi giorni. Ma soprattutto perché la natura della svolta ha (fortunatamente) nulla di politicista. Trattasi di pura reazione istintiva alla realtà. 209 miliardi di euro da cogestire hanno un potere di conversione delle coscienze che nessuna ideologia ha mai avuto e mai avrà nemmeno lontanamente. Un raro esempio di purezza dello sterco del demonio. Quel profondo nord est, produttivo e leghista, Salvini se lo sarebbe trovato davvero sotto casa coi forconi se avesse detto di no a Draghi. Idem in futuro se pur avendo detto di sì si mettesse a dare fastidio oltre il brandire qualche simbolica quanto innocua bandierina. E così, sull’immigrazione “si faccia come in Europa”, “l’Europa è casa nostra”, e ciao pure alla flat tax. Con il collante poco romantico ma assai resistente dell’opportunismo.
Ecco perché il governo Draghi è “perfetto”, proprio perché non è perfetto. E’ il governo della realtà che ci è data. Quella che deriva dalla scelta degli italiani nel marzo 2018, e nella quale entra ora in gioco la personalità italiana più autorevole al mondo. Ma in qualunque modo si vogliano combinare le maggiori componenti dell’assetto tripolare (Lega, PD, M5S) di questo parlamento, quelli sono i partiti, quelli i numeri. Da qui diventa consequenziale l’utilizzo del Cencelli per coinvolgere tutti, cosicché nessuno possa omettere di avervi messo cappello, quindi sperare di svincolarsi per tornare a stuzzicare la pancia del proprio elettorato, quando saranno da affrontare scelte difficili, urgenti e alcune impopolari. L’eccezione rappresentata da Fratelli d’Italia, che ha detto no alla partecipazione al governo Draghi, contribuisce quantomeno alla chiarezza. Chi non vuole entrare stia fuori, ma chi entra è dentro. Nessuno poi faccia finta di non essere mai entrato.
Trattasi dunque di un governo di salvezza nazionale, con una componente tecnica a decidere il grosso del Recovery Plan e una componente politica di scopo rappresentativo, nata sulla base dell’assetto politico uscito dalle urne. Un assetto che la chiara indicazione del Presidente della Repubblica ne ha imposto la riproposizione nella nuova compagine governativa, quale via maestra per superare la crisi politica seguita in primis al grave affanno del Conte bis proprio sul Recovery Plan. Perché questo è stato il nocciolo della questione. Matteo Renzi ha “solo” intercettato e saputo interpretare con prontezza di riflessi il mood montante in ambito UE sull’inconsistenza del Recovery Plan made in Conte bis.
La UE, ossia la futura parte erogante i 209 miliardi del Recovery Fund, ha espresso in vari modi e tramite diverse voci (Gentiloni in primis) il suo scetticismo sull’operato del pur apprezzato ex ministro Gualtieri. Uno scetticismo divenuto rapidamente preoccupazione e poi contrarietà. Sentenziale a tal proposito la risposta dell’UE dello scorso 11 febbraio alla lettera di Gualtieri inviata il 20 gennaio, in cui si dice espressamente:
“…we take note of the efforts that Italy is making in the preparation of its plan and welcome its general approach and the constructive dialogue undertaken so far with the European Commission. Further work remains to be done on specification of key reforms and investments to ensure a robust Recovery and Resilience Plan”.
Un passaggio che nell’aulico linguaggio dei rapporti internazionali rappresenta una posizione non passibile di interpretazioni. Insomma, belle le intenzioni. Ma dove sono i fatti? Soprattutto in considerazione dell’estrema urgenza di passare da un elenco di intenti alla stesura del più imponente progetto della nostra storia repubblicana.
Il tutto in un clima di crescente sfiducia, appesantito dai rinvii ad oltranza, dalla pretesa dell’autoreferenzialità gonfiata da una propaganda incontinente. Dalla presunzione che l’emergenza covid potesse fungere da fossato munito di coccodrilli con cui mettere al sicuro sine die la propria premiership nella fortezza del paternalismo. Infine, dalla subdola arroganza di chi davanti al “nuovo piano Marshall” si è lasciato convincere dalla claque di essere un novello De Gasperi. Ma non basta certo una soporifera favella levantina per assomigliare all’antica saggezza democristiana. Soprattutto se la tendenza alla logorroicità diventa improvvisamente timida e tardiva stringatezza, quasi impaccio, quando si tratta di condannare ufficialmente abomini come quelli del 6 gennaio a Capitol Hill.