“The Godfather”, trilogia del regista Francis Ford Coppola, interpretata, tra gli altri da Marlon Brando, Al Pacino, Robert De Niro, James Caan, Robert Duval, Talia Shire, Diane Keaton; sceneggiatura dello stesso Coppola e di Mario Puzo, liberamente ispirata ai romanzi dello stesso Puzo.
Al Pacino, nei panni di Michael Corleone, si rivolge al fratello Sonny (James Caan), prima di architettare quella che a prima vista sembra una delle più folcloristiche vendette di mafia: “It’s not personal, Sonny, it’s strictly business”; “Niente di personale, Sonny, sono solo affari”. Michael non si vuole vendicare per l’affronto subito, il tentato omicidio del padre; vuole piuttosto lanciare un messaggio chiaro alle altre famiglie mafiose; pensa già, freddamente, agli “affari” futuri.
Ora un’altra scena, sempre da “The Godfather”, il dialogo tra Michael Corleone e la fidanzata e futura moglie Kay Adams (Diane Keaton):
Michael: “Mio padre non è diverso da qualunque altro uomo di potere”.
Kay: “Già…”.
Michael: “Da chiunque abbia la… responsabilità di altri uomini, come un senatore, un presidente…”.
Kay: “Non vedi come è ingenuo quello che dici?”.
Michael: “Perché?”.
Kay: “Senatori e presidenti non fanno ammazzare la gente…”.
Michael: “Chi è più ingenuo, Kay?”.
Queste due scene possono essere, anzi sono” la spiegazione di tante cose che accadono nei nostri occhi, tutti i giorni. Cose atroci, ignobili, vergognose. Ciò nondimeno, sono animate e motivate con questa ferrea logica: “Affari”; condotti, gestiti, controllati da “uomini di potere”, in quanto tali, colpevoli; e presidenti e senatori non meno colpevoli di quanti appaiono tra i più colpevoli: i mafiosi.
Cinismo da “realismo” estremo? Fate voi. Non si condivide, non si giustifica; e tuttavia, non si può far a meno di vedere una realtà che è tale, e non si può annullare solo perché non piace, non è gradita.

Si prenda il caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano, dottorando all’università britannica di Cambridge, morto orribilmente torturato e ucciso in Egitto. Qualcuno supponeva che sapesse cose che non sapeva; è possibile che per le sue ricerche abbia fatto domande “sbagliate” a persone “sbagliate”; che qualcuno abbia creduto che fosse chi non era, che sapesse cose che ignorava. Oppure è rimasto vittima inconsapevole di misteriosi intrighi tra fazioni che al Cairo si combattono senza esclusione di colpe… Qualsiasi ipotizzato movente può essere quello giusto.
Fatto è che Giulio è prelevato in strada al Cairo da agenti dei servizi segreti egiziani, ammanettato e portato in una cella usata per le torture; incatenato e torturato con lame e mazze per giorni fino alla morte. La ricostruzione è parte dell’inchiesta della Procura di Roma che emette quattro avvisi di garanzia nei confronti di altrettanti ufficiali egiziani accusati dei reati di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravato.
Una ricostruzione possibile solo grazie alla grande volontà della famiglia Regeni che attraverso i legali, coordinati dall’avvocata Alessandra Ballerini, rintracciano testimoni chiave nonostante gli ostacoli, le reticenze e i depistaggi del governo e delle autorità egiziane. Giulio è nel mirino dei servizi egiziani da settimane; infine scatta la trappola: rapito, torturato, ucciso. Lo rivela il teste Gamma, uno dei tre principali testimoni la cui identità è segreta per evitare rappresaglie.
È il 25 gennaio 2016: Giulio viene portato nella stazione di polizia di Dokki; subito negato un avvocato e ogni contatto con l’esterno, racconta uno dei testimoni, nome in codice Delta: “Ero nella stazione di polizia di Dokki, potevano essere le 20 o al massimo le 21, è arrivata una persona… Avrà avuto tra i 27 e i 28 anni, aveva una barba corta, indossava un pullover, verosimilmente tra blu e grigio, se non ricordo male con una camicia sotto… Si esprimeva in italiano e ha chiesto un avvocato… Sono sicuro che si trattasse di Regeni. Nelle foto che ho visto su internet aveva la barba più lunga. Mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. In quel frangente ho visto bene il ragazzo italiano, che arrivava con quattro persone in abiti civili. Uno di questi aveva un telefono in mano”.

Poi il trasferimento nel palazzo delle torture. “È stato fatto salire su un’auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sharif… un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome”. Da quel momento partono i depistaggi. Quando l’ambasciata è stata interessata del caso della scomparsa di Regeni, due giorni dopo, probabilmente Giulio è già nella stanza della tortura nonostante nel commissariato di Dokki faccia finta di non averlo mai visto.
Il palazzo della tortura è la sede della National security egiziana. Un testimone vede Giulio il 28 gennaio, lo conducono nella stanza 13; lì lo torturano per nove giorni, fino alla morte. “Ho lavorato 15 anni nella sede dove Regeni è deceduto. È una struttura in una villa che risale ai tempi di Nasser, poi sfruttata dagli organi investigativi. Sono quattro piani e il piano d’interesse è il primo, la stanza è la numero 13. Quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale viene portato lì” racconta un altro testimone chiave, la fonte Epsilon. Drammatica la descrizione: “Ho visto Regeni nell’ufficio 13 e c’erano anche due ufficiali e altri agenti, io conoscevo solo i due ufficiali. Entrando nell’ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone… Lui era mezzo nudo nella parte superiore, portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava… Era un ragazzo magro, molto magro… Era sdraiato steso per terra, con il viso riverso… L’ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra… Ho notato segni di arrossamento dietro la schiena, ma sono passati quattro anni, non ricordo bene i particolari. Non l’ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e ho capito che era lui”.
Il 3 febbraio il ritrovamento del corpo senza vita di Giulio in un fosso lungo l’autostrada per Alessandria. Un corpo con evidenti segni di tortura come tagli, bruciature ed ematomi. Esami successivi evidenziano più di due dozzine di fratture, segni di coltellate e violentissimo colpo al collo che sarebbe la causa della morte. E subito con un muro di bugie depistaggi di ogni genere e reticenze che proseguono ancora oggi rifiutandosi di fornire gli indirizzi del generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Uhsam Helmi e del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, tutti accusati in Italia e protetti dal governo egiziano.

Dopo un lungo tira-e-molla, l’Italia richiama il suo ambasciatore dal Cairo; gli egiziani promettono collaborazione. A parole, perché nei fatti non accade nulla di significativo e di rilevante. La procura romana svolge un eccellente lavoro, ma da sola, senza aiuto, anzi, ostacolata in ogni modo.
Un salto di qualche mese, ora. È l’agosto 2015. L’ENI scopre uno dei più grandi giacimenti sottomarini di gas a livello mondiale, al largo dell’Egitto. Lo comunica lo stesso gruppo petrolifero che, in una nota, riferisce che la scoperta è avvenuta presso il campo esplorativo Zohr. Il pozzo Zohr 1X, attraverso il quale è stata effettuata la scoperta, è in mare a 1.450 metri di profondità, all’interno del blocco Shorouk, frutto di un accordo siglato nel gennaio 2014 tra l’ENI, il ministero del Petrolio egiziano e l’Egyptian natural gas holding company.

Il nuovo giacimento di gas, il cui permesso di sfruttamento è detenuto al 100% da ENI attraverso la controllata Ieoc Production BV Company, in base alle informazioni geologiche e geofisiche a disposizione contiene fino a 850 miliardi di metri cubi di gas, e ha un’estensione di circa 100 chilometri quadrati. Si tratta del più grande ritrovamento di gas mai effettuato in Egitto e potrà soddisfare la domanda di gas naturale del Paese per decenni. L’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, vola al Cairo per aggiornare il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi e discutere della nuova scoperta con il primo ministro Ibrahim Mahlab e il ministro del Petrolio e delle Risorse minerarie Sherif Ismail. Soddisfatto De Scalzi dichiara: “Negli ultimi sette7 anni abbiamo scoperto 10 miliardi di barili di risorse e 300 milioni negli ultimi sei mesi“. Poco dopo sono arrivate le congratulazioni dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi: si complimenta per lo “straordinario risultato di un lavoro di ricerca che si inserisce nell’ambito dei rapporti tra Italia ed Egitto, in ottica di partnership economico-strategica che riguarda l’Italia e più in generale l’intero continente africano”.
Il 31 gennaio si celebra la cerimonia ufficiale di inaugurazione del giacimento Zohr in Egitto alla presenza del Presidente egiziano, al-Sisi, e l’amministratore delegato dell’Ente Nazionale Idrocarburi- ENI, Descalzi. In quell’occasione, al-Sisi promette ampia collaborazione per la soluzione del caso Regemi. Il contesto giusto, insomma. La conferma da un altro episodio: nell’aprile 2016 il ministro degli Esteri di allora, Paolo Gentiloni, dispone il ritiro dell’ambasciatore italiano; detto fatto, al Cairo piomba subito Emmanuel Macron, a testimoniare i solidi legami di amicizia e collaborazione tra Francia ed Egitto. Messaggio chiaro: se Roma va via, Parigi è pronta a sostituirla. Diciotto mesi dopo l’ambasciatore italiano torna, anche se la presa in giro egiziana continua. Nel frattempo, tramite Leonardo, la potente industria bellica para-statale, si realizzano lucrosissimi affari con al-Sisi: milioni di euro in cambio di navi da guerra ed elicotteri.
Siamo ai giorni nostri. In clandestinità, ma non tanto, Macron conferma le sue innegabili doti di realismo politico. In occasione della recente visita a Parigi del presidente egiziano al-Sisi conferma l’inesistenza di una linea comune in Europa su politica estera e diritti umani. Mentre l’Italia si illude nella liberazione di Patrick Zaki, studente egiziano che frequenta l’università di Bologna, detenuto da mesi per imperscrutabili motivi, e 20 ong di tutta Europa denunciano il partenariato strategico della Francia con l’Egitto, il capo dell’Eliseo esplicita la sua posizione: “Non condizionerò le questioni di difesa e cooperazione economica ai disaccordi sui diritti umani. La Francia continuerà a vendere le sue armi al Cairo nonostante i suoi scarsi risultati in materia di diritti umani, poiché è fondamentale che l’Egitto mantenga la sua capacità di combattere il terrorismo nella regione. È più efficace avere una politica di dialogo esigente anziché un boicottaggio che ridurrebbe solo l’efficacia di uno dei nostri partner nella lotta al terrorismo”.

Ha poi luogo la cerimonia “nascosta”, nel corso della quale il presidente francese conferisce al leader egiziano la Gran Croce della Legion d’Onore, massima onorificenza della Repubblica che viene concessa a tutti i presidenti in visita di Stato in Francia. “Per la prima volta siamo dovuti andare sul sito internet di un regime autoritario per sapere quello che succede all’Eliseo”, commenta Yann Barthes, giornalista della trasmissione “Le Quotidien di Rmc”, presentando il filmato della consegna dell’onorificenza Sisi.
A questo punto, domanda a: Franco Bassanini, Emma Bonino, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Dario Franceschini, Sandro Gozi, Giuliano Pisapia, Romano Prodi, Beppe Sala, Walter Veltroni: non ritengono di dover restituire l’onorificenza che a suo tempo è stata loro data? Nessuno di loro lo farà, ci si può scommettere tranquillamente.
Quanto a Regeni, Zaki e i diritti civili e umani in Egitto di cui ci si fa bellamente strame, si torna all’inizio di questa nota: “Niente di personale, sono solo affari…”. E non solo a Kay, ma a tutti noi: “Chi è più ingenuo?”.