“Democrazia Bloccata” fu una fortunata formula del Prof. Giorgio Galli, che ha accompagnato almeno trent’anni di vicenda repubblicana. Grosso modo, dalla fine dei governi di Centro-Sinistra con i socialisti di Nenni, a Tangentopoli. Alludeva al mancato dinamismo, proprio di ogni sistema liberal-democratico, per cui l’Opposizione di oggi diventa il Governo di domani, e viceversa. Ma c’era la Guerra Fredda, l’U.R.S.S., e di questo, nelle esortazioni a fare quello che si faceva altrove, sempre si tenne poco conto, o non tanto quanto la tirannia di quell’universo politico avrebbe meritato.
Peraltro, sappiamo, i comunisti italiani, col tempo si resero sempre meno comunisti e sempre più italiani: e questo, se non l’alternanza, almeno consentì una più equilibrata compartecipazione al controllo delle leve di potere, nazionale e locale. In fondo, Guareschi, all’inizio della storia, puntando sui faccioni di Peppone e Don Camillo, aveva inteso affermare questa verità non fanatica: discutere quanto vogliamo, ma bisogna starci tutti, senza scannamenti.
Tuttavia, un effetto rimase, indubbiamente, fra le pieghe di questa convivenza di fatto, un germe: la sensazione di una sorta di franchigia, per cui, errori, inadempienze, anche gravi, mai avrebbero potuto condurre ad un completo mutamento degli equilibri. Ne venne una disposizione mentale più vicina all’onnipotenza che alla umana responsabilità. E quando ci si sente immuni dal circuito delle responsabilità, quella è la via sicura per i maggiori disastri.
Sembrerebbe preistoria: e, invece, è il paradigma attraverso il quale ci si deve accostare al nostro drammatico presente politico.
Siamo alla Seconda Ondata di covid-19. Alla constatazione facile, e persino imbarazzante del non-fatto, cui è seguita la nota sequela di una linea decisoria multiforme, incerta, variegata, senza padri e madri riconoscibili.
Grandi velleità. Come quella della scuola aperta comunque: salvo a registrarne una chiusura progressiva, e, ciò che più conta, rimessa all’estro o all’iniziativa di ogni più pulviscolare mossa locale: cento città, cento decisioni diverse. Con un infinito spettro di sfumature, di possibilità, di interpretazioni, di inefficienze.
O come quella di articolare una soluzione che salvasse la capra della sanità, e i cavoli della produzione. Giusta in sé, come pura intenzione. Ma abbiamo avuto lo stillicidio delle chiusure, delle semichiusure, dei ristori una tantum; il sovrapporsi di sdegnosi rifiuti, verso strumenti finanziari europei, a imprecisate previsioni sull’imprecisabile misura del diminuito PIL, mentre il nostro debito pubblico ha con certezza raggiunto il 160% del Bilancio dello Stato.
E l’alternarsi di promesse vaticinali sui vaccini, sulla loro pronta introduzione, subito seguite dalla caotica ridda di ipotesi contrarie circa la loro reale capacità immunizzante e la scansione della loro somministrazione. Che bisogno c’è di questo bailamme supplementare?
La schiera di esperti medici e genericamente “scientifici”, così vanamente percussiva e, nel complesso, cicalante, monitoria, salmodiante, profetica, apocalittica, messianica: che vorrebbe essere rassicurante al tempo stesso in cui si mostra litigiosa, reciprocamente rancorosa, pettegola, capricciosa. “Nel complesso”, certo: perché è il complesso della sua quotidiana apparizione, a risultare l’unica dimensione che conta, nella percezione esausta del povero e modesto osservatore comune.
Ecco: riguardato come effetto di una causa, tutto questo trova in quella sensazione di onnipotenza il suo “Fattore” fondamentale. La formula di quest’ultima inamovibilità, riassuntiva, e un po’ manigolda, è: “E allora Salvini?”. Come se si trattasse di invocare un simile ballon d’essai politico (peraltro, sempre meno considerato pure a casa sua). E come se non lo si fosse già visto all’opera, insieme ai suoi amici/nemici. Quasi che, anche volendo fare nomi, non se ne fossero ipotizzati altri, di pacifica autorevolezza, anche internazionale, e non se ne potessero ipotizzare pure per il presente o l’immediato futuro.

E’ una formula un po’ manigolda, pertanto, perché butta in caciara quella che è, e rimane, la questione politica fondamentale: qual è il disegno?
Sul piano strettamente sanitario, come ricomporre un quadro di responsabilità, se non perfettamente unitario, almeno leggibile? Perché si è oggi deciso di frazionare fino all’inverosimile, ciò che in Primavera si era invece accentrato?
Sul piano economico, è lecito chiedersi, se tutti i ceti, tutte le fasce sociali, stanno subendo nella stessa misura; se sia ancora ammissibile la totale assenza di un sia pur minimo contributo delle fasce di reddito fisiologicamente sottratte alla diretta incidenza delle “chiusure”, o della riduzione a pura apparenza delle loro attività (la più parte dei servizi, con la sola eccezione della ristorazione domiciliare).
E si badi: qui non ci si riferisce ai redditi da lavoro dipendente in quanto tali, a cominciare da quelli “in nero”: perché, nel settore privato, evidentemente, seguono, e seguiranno, il destino delle aziende cui sono addetti. Ma all’intero settore pubblico, dove, alla mantenuta integrità del reddito, non si può certificare se, quando, dove e in che misura sia corrisposta, e corrisponda, l’integrità della già discutibile produttività ante-Covid (senza contare certe altre fasce di quiescenza medio-alte). Nessuno dice che sono scansafatiche: ma qui non si è perso un centesimo, scansafatiche o meno. Questo dato politico-sociale, in questi termini, assomiglia più ad un privilegio che ad un criterio. L’unica voce del “giro mediatico grosso”, che ha tentato di metterlo in rilievo, è stato Il Prof. Cacciari, generalmente ignorato, peraltro.
Se manca l’idea che il timoniere, qualunque “schettinata” gli venga in mente, rimarrà al timone, intorno, giù, e in ogni direzione, si sentirà sempre più sibilare e poi crescere come un sordo, opprimente urlo collettivo, solo un terribile “Si salvi chi può”.
Ma quando si arriva questo, poi non si salva nessuno.