Giovedì, Silvana Saguto, ex magistrato, già Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, è stata condannata. Ad otto anni e sei mesi di reclusione. Con lei, altri coimputati, ritenuti variamente complici di corruzione e altro, nella vicenda dei cd sequestri antimafia. Primo grado di giudizio. Seguirà appello.
Si noterà una certa concisione, in questa presentazione. È solo un tentativo di mimèsi. Dobbiamo riflettere, come uno specchio fedele, il fatto minimizzato, la polvere sotto i tappeti, il fuggi fuggi dei ricordi, i silenzi calati a sotterrare i clamori, il disinteresse dove furoreggiarono clamorosi prime time. Perciò, stringatezza, essenzialità, un po’ di noia, anche. D’altra parte, c’è il Covid, che, oltre alle giustificate paure, riesce pure comodo nutrimento ad ogni pigrizia civile e spirituale.
Assolto così il nostro compito cronachistico, chiudiamo gli occhi, per capirci qualcosa. Dobbiamo riesumare storie dimenticate. Dimenticata, in primo luogo, la verità. A cominciare dalle parole. Beni sequestrati, beni confiscati? Vite sequestrate, vite confiscate, semmai. Sentimenti, speranze, lavoro, identità.

Da Palermo, dai suoi crateri, dai cadaveri-simbolo di Falcone e Borsellino, in un’altra era, sorse una schiatta di profittatori. Di violenti mistificatori del diritto. Di costruttori di menzogna, di lapidatori con la menzogna, di parassiti della menzogna. Sono stati magistrati. Sono stati giornalisti. Sono stati, soprattutto, uomini e donne di questo Paese. Padri e madri di famiglia. Studenti. Nonni. Colti, incolti, istruiti, analfabeti, ricchi, poveri.
Milioni di persone hanno assunto la sopraffazione come un divertimento, e hanno ucciso la loro coscienza morale. Come “Antifascismo”, anche “Antimafia” è diventato un mestiere. Un passatempo. Una rendita. Un sistema. E siccome un sistema, una volta divenuto tale, si legittima solo nella sua stessa esistenza, non può avere altra regola che il suo incessante movimento, altro divieto che fermarsi.

E come si fa, a non fermarsi mai? Facile. Si stabilisce un perimetro, un’area, entro cui la ragione, il nostro centro di gravità politica e civile, quello a cui tutto deve tornare, e commisurarsi, è messa al bando. E alla dignità umana, così negata, misconosciuta, non resta altra possibilità che fluttuare pazzamente senza direzione: privata di ogni peso, di ogni consistenza, resa solo ombra di sé, ingombro di cui vergognarsi.
Un imprenditore vive la sua azienda. La vive, esatto: come vive la sua vita. Si alza la mattina. Pensa ai suoi conti, agli impegni, ai fornitori, ai dipendenti, alle banche, all’oggi, al domani. A un certo punto, si presenta uno. Per conto di un altro. Di altri. In un tempo in cui erano tutti fuori e pochi dentro. E chiede. E allude. E minaccia. E impone. E l’imprenditore conosce un carnefice, e diventa vittima. Così, semplicemente.

Ma lui non sa di essere stato circondato da quel perimetro. Non sa che la ragione per lui non vale più. Non sa che quei magistrati, quei giornalisti, quegli uomini e quelle donne già distesi sui divani delle loro case, lo hanno già privato della sua dignità. Perché loro vogliono di nuovo il Colosseo.
Perché molti di loro, come i Theodor Lohse descritti da Joseph Roth, sono incatenati ai fantasmi delle loro infanzie adoloscenze e giovinezze, trascorse a macerare frustrazione, trasognate invidie, ricchezze sempre viste oltre di sé, anche quando non c’erano.
E hanno trasformato quell’uomo che lavora e produce in “uno che ci sta”, come, neanche troppi anni prima, si trasformava in “una che ci sta” la donna stuprata. E si chiedeva com’era vestita. E se era bella. Alla stessa maniera, si guarda se l’imprenditore è capace, rigoglioso, coraggioso. Per fargliene una colpa. Una Colpa Originaria. E nulla come una simile colpa, inafferrabile, insuperabile, incomprensibile, diffonde solitudine e impotenza.
Quell’uomo, ora come prima, dunque è solo. Com’erano sole quelle donne. Falcone, chiaro com’era di propositi e di azione, diceva in proposito: “si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”.

Così, quando l’imprenditore, in un altro tempo, perché la Storia si è mossa, i muri sono crollati -e “quelli”, parte sia pur minima di quei muri, già forti del numero, sono finiti in polvere con tutto il resto, privi ormai del loro marginale ma reale ruolo- ecco, quando questo è successo, l’uomo solo pensa di poter tornare a vivere la sua vita, la sua azienda. Da “inerme cittadino” finalmente affrancato da richieste, allusioni, minacce, imposizioni.
E invece no. La nuova schiatta dei profittatori, famelica, potente, si presenta e, anziché aiutarlo, lo accusa. Ma non in modo banale.
Bisogna alimentare un sistema, bisogna appagare la sete di moltitudini. Bisogna far circolare denaro per pasturare appetiti, per giustificare potenze. Soprattutto, bisogna semplificare: si agisce per ordini di grandezza, per masse da liquidare, per assimilazioni rapide e comprensive che prevengano “il rischio” della verità.
Da quel “ci sta”, si cavano guadagni retroattivi, si “ricostruiscono patrimoni”, si svelano intere genealogie finanziarie. Il perimetro, la Sicilia (ma non diversamente, vale per la Campania e per la Calabria) è munito di torrette di avvistamento, di potenti riflettori, di solido filo spinato. Tutto è sotto controllo, nulla, nessuno, può sfuggire.
Le vite sequestrate, irreversibilmente, sono il Male di questa storia. Il presupposto favolistico dell’Antimafia senza mafia (come dell’Antifascismo senza Fascismo). Ancora oggi, su La Stampa diretta da Massimo Giannini, si può leggere che Pietro Cavallotti, letteralmente, un Giusto Testimone, cioè, un martire di questo abominio, sarebbe “una delle autodefinite vittime”.

Ed essendo questo il quadro, il cd “Sistema Saguto” è solo un’altra obliqua riduzione, volta solo a consentire la perpetuazione di Codici Antimafia: di violenze istituzionali che si autogiustificano già nell’atto stesso in cui sono poste; di reti di interessi normativi, culturali, istituzionali, ma gesuiticamente scomposti fino all’insignificante dimensione molecolare di una fornitura di tonno non pagata, alla prepotenzuccia burocratica, al piccolo parassitismo di giornata.
Nell’Italia di questa Magistratura, con i suoi unanimi e onnipresenti manipolatori cartacei, televisivi, digitali, che ha appena risolto la sua più indicibile rivelazione, ancora in un “nome unico” (Palamara), ancora in un corale “e chi lo conosce?”; in un simile “Contesto”, gli otto anni e sei mesi, le “pesanti conseguenze risarcitorie”, e altre similari minuterie sparsamente segnalate, quest’unica, autentica, enorme, ignominiosa colpa collettiva, non è stata nemmeno sfiorata. L’hanno occultata. Come hanno occultato quei crateri, quei cadaveri-simbolo, quei Grandi Nomi, che tutti gli “inermi cittadini” riassumono.