Con quello di ieri, da inizio pandemia, Conte è arrivato a quota 22 decreti. Ventidue discorsi alla nazione in cui ha parlato di misure restrittive, senso di responsabilità prettamente individuale e spirito di sacrificio.
In primavera, tutto ciò era per superare un nemico invisibile e ignoto. Oggi, per arrivare “sereni” al Natale. Dopo la conferenza stampa, però, di persone serene ne sono rimaste ben poche. Così sono scattate le contestazioni. Tutto è iniziato a Napoli, la regione in cui lo sceriffo De Luca, rincuorato da una rielezione ottenuta solo un mese fa, ha pensato di prendersi la scena minacciando una chiusura totale delle attività. Un lockdown, in parole povere.

A Napoli è seguita Roma, con la manifestazione in Piazza del Popolo guidata dagli esponenti di Forza Nuova. Si sono poi accodate Catania, Lecce, Bari, Verona, Trieste, Pescara, Terni, Cosenza e Torino. Infine Milano, diventato di nuovo il centro italiano dell’epidemia. Proprio nelle ultime ore, infatti, un centinaio di persone si sono radunate in piazzale Loreto per manifestare contro le misure istituite dal governo. Tanta polizia al seguito e una situazione che scotta. Dal corteo vengono lanciate bombe carta, accesi fumogeni e alcuni cestini sono rovesciati in mezzo alla strada. In più, le solite violentissime aggressioni ai veicoli delle forze dell’ordine.
A un malcontento del genere, l’Italia non è abituata. Dopo mesi di faticosa sopportazione, ora nelle strade è esplosa la rabbia. La rabbia di chi, in contrapposizione alla serenità del Premier Conte, che nel rispondere ai giornalisti ha detto “se fossi dall’altra parte sarei anch’io infuriato con il governo”, deve fare i conti con la fame e la paura di dover abbandonare a titolo definitivo la propria attività.
Su tutti, protestano i ristoratori. Ieri, davanti a Palazzo Chigi, i rappresentanti della categoria hanno manifestato pacificamente chiedendo la modifica dell’orario di chiusura. Per il momento è fissato alle 18, una decisione universalmente definita “assurda”. Soltanto nella capitale, dove si contano circa seimila ristoranti, la metà ha deciso di non aprire durante il periodo di validità del decreto, ovvero fino al 24 novembre. “Troppo oneroso continuare l’attività fino alle 18 – ha dichiarato al Messaggero il presidente della Fipe capitolina Sergio Paolantoni – quando il 70% degli incassi si registra la sera”. Di queste 3000 saracinesche abbassate, addirittura un terzo potrebbe non riaprire più. Chi spiegherà ai gestori che la cena fuori è un’attività “superflua” e “non necessaria”?

Altra stangata è stata data al mondo della cultura e dello spettacolo. Per di più, in questo caso, una giustificazione alla chiusura totale di cinema, teatri e al divieto di concerti non trova riscontro nemmeno nei numeri. L’AGIS, Associazione Generale Italiana dello Spettacolo, ha condotto uno studio che ha dimostrato come, su 347.262 spettatori in 2.782 spettacoli monitorati tra lirica, prosa, danza e concerti, con una media di 130 presenze per ciascun evento, nel periodo che va dal 15 giugno ad inizio ottobre si sia registrato un solo caso di contagio da Covid 19 sulla base delle segnalazioni pervenute dalle ASL territoriali. In pratica lo 0%. A tal proposito Carlo Fontana, presidente dell’AGIS, ha scritto una lettera al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini, chiedendo “l’avvio urgente di un tavolo di discussione per affrontare le criticità degli operatori dello spettacolo, costretti a vivere in una condizione economica complessa e di incertezza, tale da non consentire un’adeguata programmazione per l’anno 2021”.

Delusione e sconforto, infine, per i titolari di piscine e palestre. Hanno sostenuto ingenti spese per mettere a norma le loro strutture e ora, dopo l’illusione durata una settimana, il nuovo decreto li costringe a una nuova e mortifera chiusura. Che senso ha avuto rispettare le regole, investire e ridurre le entrate, se poi il risultato è questo?
I cittadini non sono pronti ad affrontare un nuovo giro di sacrifici economici, molti non ne hanno le possibilità. Se le cose rimarranno immutate, le proteste aumenteranno e la situazione peggiorerà. Così il governo si troverà a dover rispondere alla domanda che circola da mesi. Cosa si è disposti a sacrificare per salvaguardare la salute di una ristretta (in termini percentuali) porzione di popolo?