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September 2, 2020
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September 2, 2020
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Se i sondaggi dicono Biden, allora significa che vincerà ancora Trump?

Dopo l'allarme di Michael Moore, un'analisi del suo messaggio e quindi di quali stati i democratici dovrebbero assolutamente preoccuparsi di vincere

Francesco RancibyFrancesco Ranci
Se i sondaggi dicono Biden, allora significa che vincerà ancora Trump?

New York City, 11/12/2016: Michael Moore in marcia contro Trump (Foto Mathias Wasik/Wikimedia)

Time: 7 mins read

Se i sondaggi dicono Joe Biden, forti dell’esperienza del 2016 possiamo stare certi che vincerà ancora Donald Trump. Con un margine di poche decine di migliaia di voti in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, Trump ha annullato il vantaggio di circa tre milioni di voti (quattro in California), ottenuto da Hillary Clinton. Questo il messaggio di Michael Moore settimana scorsa: Biden non sembra ancora aver capito bene il problema, visto che non ha messo ufficialmente in programma di fare personalmente campagna elettorale in Michigan.

Circolava peraltro una soluzione “scientifica” del problema posto da Moore. Secondo Steve Kornacki un margine del 2-3% (che i sondaggi correttamente attribuivano a Hillary) sarebbe ribaltabile con tre vittorie risicate a livello locale, ma il margine del 5-7% di cui gode Biden da un paio di mesi ne sarebbe al riparo. Un po’ come la marea, dopo una certa ora, non consente più di ritrovare il telefonino dimenticato sulla spiaggia.

Non convinto da questa risposta, Moore basava il suo grido d’allarme su un sondaggio locale che dava un pareggio in Minnesota. Kornacki forse risponderebbe che una rondine non fa primavera, ma nel 2016 era il 2-3% del voto popolare a venir considerato sufficiente. David Plouffe ha chiuso il discorso affermando che a lui interessano solo i sondaggi locali.

Il risultato del voto nel 2016

Quello che i sondaggi non vedono

Hillary vinse i dieci “electoral votes” del Minnesota con un margine di circa 50.000 voti (200.000 circa a Minneapolis), ma cinque volte tanti ne presero i candidati “indipendenti” – un’incognita particolarmente difficile da trattare per i sondaggisti, ma che poi non di rado decide le elezioni in un sistema maggioritario. Nel sondaggio citato da Moore, il candidato dei “libertarians” in Minnesota ha il 3,5% dei voti (non lontano dai 112.000 voti racimolati dai “libertarians” nel 2016), un “altro candidato” registra l’1,2% e, naturalmente, c’è anche una percentuale di “indecisi” (apparentemente, solo l’1,5%). La media degli ultimi sondaggi offerta dal sito “Real Clear Politics”, pur assegnando apparentemente con grande precisione un vantaggio del 5,3% a Biden, è costruita su dati che non sono omogenei tra loro. Degli altri due sondaggi considerati uno non considera i candidati indipendenti, mentre l’altro include la risposta “non voto”. Lo stesso sito che propone la media aritmetica dei tre sondaggi (Trafalgar, Emerson e Fox) avverte che il primo si basa su una popolazione di “probabili” elettori, mentre gli altri due sui registri elettorali – il che solleva ulteriori problemi (oltre a quello “ovvio” della traduzione delle intenzioni in comportamenti):

La mappa di Real Clear Politics aggiornata al 2 settembre 2020

1. I sondaggisti non rivelano i criteri che utilizzano per determinare la probabilità che gli intervistati voteranno, proteggendosi con il “segreto professionale”. Se invece utilizzano i registri elettorali, possono non chiedere agli intervistati se voteranno o no, presumibilmente catalogando questi ultimi tra gli “indecisi”. Ma guardando ai risultati e sapendo che la partecipazione elettorale non supera di norma il 60-70% riesce difficile credere alle percentuali di “indecisi”, o di “non voto”, largamente inferiori che invece si trovano nei sondaggi in cui il campione viene prelevato dai registri elettorali.

2. La regola di includere anche le “non risposte” nel campione risulta chiaramente abbandonata. Cercando di adeguarsi ai mutamenti delle tecnologie e dei redditi, i campioni sono suddivisi in grossolana proporzione di 1 a 2 tra intervistati raggiunti via telefono fisso e via telefono cellulare. Una strategia difficilmente compatibile con il rispetto di una metodologia controllabile per quanto riguarda il censimento delle risposte rifiutate e di altre variabili relative alla selezione degli intervistati e alla conduzione dell’intervista.

3. Il principio generale secondo cui le differenze dovrebbero reciprocamente annullarsi, non sapendo in che modo possano aver condizionato il risultato finale, non aiuta a fidarsi di questi dati. Quello che “aiuta” è solo il confronto tra previsioni e risultati, a prescindere dai criteri con cui la previsione era stata formulata, un po’ come nel calcio conta chi vince, a prescindere da come abbia o non abbia giocato. Questo confronto fornisce a volte risultati confortanti per chi lo propone, ma solo se le previsioni considerate sono molto stabili nel tempo, fino ai pochi giorni precedenti le elezioni, e tenendo in considerazione la durata di eventuali tendenze verso l’alto o il basso. I risultati migliorano solo ampliando la popolazione di riferimento e diminuendo le variabili considerate.

4. Resta anche il tragico problema di stabilire quanto il risultato elettorale sia influenzato da quella che teoricamente sarebbe solo una “previsione”, ma che viene utilizzata – e presumibilmente manipolata, inconsapevolmente o meno – a fini propagandistici. In linea di principio, tutte e quattro le direzioni di condizionamento sono possibili: l’elettore potrebbe essere sia incoraggiato che scoraggiato, e sia dalla previsione ottimistica (voto e vinco vs. vinco senza votare) che da quella pessimistica (serve il mio voto se non voglio perdere vs. spreco il mio tempo). Ma da qui a sostenere che i quattro scenari sarebbero equi-probabili ce ne passa: la vittoria, ceteris paribus, attira più della sconfitta.

Joe Biden (Illustration by Antonella Martino)

Di certo, l’elettore decide se votare o no – e come votare -, prendendo in considerazione principalmente informazioni ulteriori rispetto ai sondaggi, ma altrettanto certamente di essi tiene conto, specialmente se li considera attendibili – o addirittura, ingenuamente, come “certezze” di un risultato finale che deve ancora essere ottenuto. Un po’ come il consumatore, senza rendersene bene conto, pur muovendo da una qualche forma di autoanalisi delle proprie esigenze, finisce con l’acquistare prodotto di cui percepisce la fiducia nella maggioranza della popolazione in cui si identifica.

Quali sono gli “swing states” ?

Considerando scontato l’esito del voto popolare, un sondaggio (CNBC), si concentra su “sei Stati” considerati cruciali ai fini del conteggio finale. A Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, teatro dell’inaspettato successo di Trump nel 2016, aggiunge Arizona, Florida e North Carolina. Biden potrebbe compensare eventuali sconfitte nei primi tre – e non in altri, come il Minnesota, per esempio – avendo maggiori possibilità qui che altrove – ad esempio, in Ohio. Viene dato per scontato che a supporto dell’interpretazione degli ultimi sondaggi entrano in scena considerazioni ben diverse.

Il ragionamento sembra essere lo stesso “demografico” ragionamento che ha contribuito, in qualche misura alla sconfitta di Hillary Clinton. I democratici avanzano negli Stati dove cresce la popolazione ispanica (o nera, in North Carolina), mentre i repubblicani guadagnano terreno dove la popolazione bianca conserva la stragrande maggioranza. Ma come segnalato allora dal sondaggista Nate Silver, questo ragionamento trascura il problema dei margini di crescita del voto ispanico, ancora insufficienti a garantire la vittoria, ad esempio, in Arizona, perlomeno nel 2016 (secondo l’ultimo sondaggio, invece, Biden avrebbe un margine del 10% in Arizona).

I numeri, ma siamo solo ai primi di settembre, non sono diversi in questi “sei stati chiave” rispetto ad altri “swing states”. Il sito “Real Clear Politics” applica (anche se non inesorabilmente, ad esempio non al South Carolina – presumibilmente per mancanza di un numero adeguato di sondaggi) come criterio di selezione il margine del 10% nella media degli ultimi tre sondaggi. Di conseguenza, oltre quelli di cui sopra ne deve aggiungere altri.

Donald Trump, illustrated by Antonella Martino

Altri possibili “swing states”.

I quattro voti del New Hampshire nel 2000 a Gore sarebbero bastati. Il New Hampshire da allora ha sempre sostenuto il candidato democratico e l’aveva fatto anche nei due cicli elettorali precedenti. Giustamente, si ricorda come fattore decisivo di quelle elezioni la Florida, con le sue schede elettorali che finirono davanti alla Corte Suprema e la differenza di poche centinaia di voti, alla fine non ricontrollata. Tuttavia, le cose sarebbero potute andare diversamente considerando che Bush vinse il New Hampshire per 8.000 voti, mentre 22.000 furono raccolti da Nader.

Se il Nevada e l’Iowa (6 voti ciascuno) possono essere stati esclusi dalla lista dei “six battleground States” per via delle loro dimensioni elettorali, lo stesso non si può dire di Georgia e Texas, che come l’Ohio e il Minnesota sono stati “schierati” sulla base dei loro precedenti storici – quest’ultimo ai democratici, tutti gli altri ai repubblicani.

Alcuni sondaggisti stimano poi, sulla base di sondaggi ad hoc, al 2% un nuovo fattore: la presunta renitenza che i sostenitori di Trump avrebbero ad “ammettere” che intendono votare per il Presidente e quindi la “sottorappresentazione” di Trump nei sondaggi. Il vantaggio attuale di Biden in questi Stati (come negli altri, peraltro, ma altrove questo non modifica le previsioni) andrebbe quindi ridotto del 2%, il che riporterebbe la situazione in equilibrio – o prefigurerebbe, anche se non ancora nei numeri, la vittoria di Trump.

Tra le nove situazioni maggiormente in bilico, secondo il sito “538” fondato da Nate Silver, contrariamente a quanto percepito da Michael Moore, non risulta il Michigan. Questo sito, che assegna a Biden l’80% delle probabilità’ di vittoria in Michigan, si basa in parti uguali sui sondaggi e su un insieme di variabili demografiche e storiche, simulando al calcolatore il processo elettorale). Ne escono confermati Wisconsin e Pennsylvania, e North Carolina, Arizona e Florida, e ci sono anche Minnesota, Ohio e Iowa.

2 settembre 2020: la mappa di Real Clear Politics sulle previsioni per il Senato

Il quadro generale

Fermi restando i voti “in cassaforte” di California (55), New York (29), Illinois (20), Massachusetts (11) e Maryland (10) i democratici partono con un vantaggio di 125 voti elettorali, che arriva a 212 includendo Stati più piccoli e ugualmente “solidi” per i democratici, come il Vermont, e gli Stati dove Biden ha un vantaggio di almeno il 10% secondo la media di “Real Clear Politics” (inclusi Colorado, Virginia e New Mexico).

I 58 voti mancanti diventano 38 spostando Minnesota, Nevada e New Hampshire nel campo democratico, dove sono rimasti nel 2016. Ecco perché Pennsylvania (20) e Michigan (16), con il Wisconsin (10), o anche l’Iowa (6), sarebbero sufficienti a Biden per vincere, e da dove nascono le strade alternative alla sua vittoria. Ma questo potrebbe non essere solo un vantaggio, come accade come una squadra di calcio può’ sia vincere che pareggiare, e magari invece di sfruttare la situazione per sorprendere l’avversario si disunisce.

Dall’alto dei 304 voti elettorali, gli hanno dato la vittoria nel 2016, Trump potrebbe incassare la sconfitta in Michigan (16) e in Pennsylvania (20), e anche sostituire il Wisconsin con il Minnesota, ma dovrebbe allora “tenere” in Ohio (18) e Iowa (6), Arizona (11), North Carolina (15), Georgia (16) e ovviamente in Florida (29), per non parlare del Texas (38). Conservando tre “nuovi arrivi” del 2016, potrebbe cedere Arizona e North Carolina.

I risultati degli ultimi sondaggi riportati da Real Clear Politics

La questione “etnica”.

L’aggiramento, in termini geografici, ma anche demografici, riuscito ad Obama con la conquista di Colorado, Nevada e Virginia nel 2008 e 2012, ha trovato come risposta lo sfondamento centrale riuscito a Trump in Pennsylvania, Ohio, Michigan, Wisconsin e Iowa. Bisogna vedere se o fino a che punto le cose continueranno a procedere allo stesso modo. Dopo Arizona e North Carolina, ci sono Georgia, Florida e Texas. A quel punto l’aggiramento sarebbe completo, lo sfondamento vanificato e la strategia di Trump sconfitta.

Il punto critico, purtroppo, sta nella contrapposizione di fondo tra la tradizionale maggioranza bianca e la nuova, o futura, maggioranza multietnica. Le reciproche mosse elettorali, forse a partire dai tempi di Kennedy e poi di Reagan, sembrano ridursi a un allineamento ai dettami imposti dalla strategia elettorale dell’avversario, a tentativi di sfruttare a proprio vantaggio i problemi generati dallo scontro “etnico”, invece che cercare di risolverli.

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Francesco Ranci

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