In Cina ad una crescita e uno sviluppo economico impressionanti, non ha fatto seguito un cambiamento sociale altrettanto sorprendente. Sono ancora molti i lati oscuri della gestione di molti problemi. Come il modo in cui sono trattate alcune minoranze etniche e religiose.
Dal 2001, in Cina, è in atto una forma di repressione nei confronti di movimenti considerati indipendentisti e separatisti (i cui inizi risalgono alla prima metà del novecento). Col tempo, le minoranze musulmane che vive nel paese sono state vittime di forme di repressione sempre più dure da parte delle autorità. Nel 2009, nello Xinjiang, per fermare una manifestazione di uiguri morirono centinaia di persone.

Oggi, nello Xinjiang (regione al nord della Cina, nota per le risorse di petrolio e di gas), vivono più di 10 milioni di uiguri. Una minoranza etnica che parla un proprio dialetto simile al turco e i cui tratti somatici ricordano molto i popoli dell’Asia centrale. Di loro, in Cina e fuori dai confini cinesi, si parla molto poco. Se ne parlò qualche anno fa per ricordare le centinaia di migliaia di uiguri (e di altre minoranze musulmane) detenuti nei campi di “rieducazione” cinesi. Cosa sono questi campi di rieducazione? Il governo centrale li definisce siti per favorire l’apprendimento di utili capacità di carriera. Ma molti di quelli che sono sopravvissuti parlano di prigionia e di luoghi dove viene fatto una sorta di lavaggio del cervello di massa e inculcata l’obbedienza al partito comunista (i principi comunisti sono scomparsi da tempo).
La prima prova concreta dell’esistenza di questi campi risale al 2018: una fotografia satellitare di un sito appena fuori dalla cittadina di Dabancheng, a circa un’ora di auto dal capoluogo di provincia, Urumqi, mostrava una serie di giganteschi edifici grigi, tutti a quattro piani, massicci e circondati da un muro esterno lungo 2 km, punteggiato da 16 torri di guardia. Di strutture simili, negli ultimi anni, ne erano sorte tante: simili a prigioni di grandi dimensioni sono tutte nello Xinjiang.
A chi ha chiedeva di cosa si trattasse veniva risposto “È una scuola di rieducazione”, un posto dove “Ci sono decine di migliaia di persone lì. Hanno dei problemi con i loro pensieri”. Alcuni documenti, classificati “China cables”, recentemente resi pubblici, sembrano confermare che i musulmani, soprattutto uiguri, che il governo cinese ha rinchiuso in “campi di rieducazione” nella regione nord-occidentale dello Xinjiang sarebbero più di un milione (altre fonti parlano di un milione e mezzo).

(Photo: Andrew Bardwell-UN news)
Lo scorso dicembre scorso, la questione è stata oggetto di una discussione al Parlamento europeo. Secondo i documenti presentati al Parlamento europeo sarebbero centinaia di migliaia gli uiguri e le persone di etnia kazaka (tra i quali il vincitore del Premio Sacharov di quest’anno, Ilham Tohti) rinchiusi in “campi di rieducazione” politica.
Al termine, alcuni europarlamentari hanno chiesto al governo cinese di chiudere immediatamente i “campi di rieducazione” nello Xinjiang.
Gli europarlamentari hanno chiesto, inoltre, al Consiglio europeo di adottare sanzioni mirate e di “congelare i beni, se ritenuto opportuno ed efficace, contro i funzionari cinesi responsabili di una grave repressione dei diritti fondamentali nello Xinjiang”.
Le autorità cinesi hanno sempre negato tutto e di “centri di formazione professionale” utilizzati per combattere l’estremismo religioso violento. Tesi smentita dagli innumerevoli documenti presenti negli archivi cinesi. Alcuni, scoperti da Adrian Zenz Senior Fellow in China Studies at the Victims of Communism Memorial Foundation, Washington, mostrano appalti e progetti dettagliati per la costruzione o la conversione di dozzine di strutture con funzioni di sicurezza complete, come torri di guardia, filo spinato, sistemi di sorveglianza e guardie. I centri di “rieducazione”, come vengono chiamati questi centri di detenzione, sono stati oggetto di una gara di appalto del luglio 2017 dove si parlava di un sistema di riscaldamento in una “scuola di trasformazione attraverso l’educazione” nel distretto di Dabancheng. Bastano pochi calcoli per capire che si tratta di strutture in grado ospitare complessivamente centinaia di migliaia, forse anche più di un milione di persone.

Secondo Amnesty International, nel marzo 2017, in Cina sono stati adottati “Regolamenti sulla de-estremizzazione” altamente restrittivi e discriminatori. “Esternazioni pubbliche o private di affiliazione religiosa e culturale, compresa la crescita di una barba “anormale”, l’uso di un velo o anche solo un foulard, una semplice preghiera, il digiuno o il rifiuto dell’alcol, possedere libri o articoli sull’Islam o sulla cultura uigura possono essere considerati “estremisti” in base a questo nuovo regolamento” riporta il sito di Amnesty International. Una denuncia che non è bastata a richiamare l’attenzione dei media su ciò che sta accadendo in Cina.
Nel 2018, un’inchiesta del quotidiano online Bitter Winter parlò di uiguri detenuti in campi di concentramento, in Cina (venivano mostrati video filmati all’interno di questi campi simili a prigioni). A sostegno dell’esistenza di questi centri di detenzione vennero forniti documenti trafugati di nascosto che avrebbero confermato la più grande incarcerazione di massa di una minoranza etnico-religiosa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Allora come oggi, il governo cinese definì queste iniziative “fabbricazione di notizie false”. E tutto venne messo a tacere. In tutto il mondo.
Oggi in Cina, centinaia di migliaia di uomini e donne vengono arrestati senza accuse di crimini specifici e portati in centri di redenzione dove vengono “rieducati”. Quelli che finiscono in questi campi sono dei “quasi criminali”: vengono visti come un pericolo per la società, non per aver commesso un crimine, ma per avere il potenziale per farlo. Una mezza giustificazione per costringere persone che, una volta identificati come aventi tendenze estremiste, hanno una sola alternativa “scegliere tra un processo” o “un’istruzione nelle strutture di de-estremizzazione”. Inutile dire che la maggior parte delle persone preferisce “studiare”. Ai familiari viene detto che i loro parenti sono “infettati” dal virus del radicalismo islamico e quindi devono essere messi in quarantena e curati. E tutto questo nella più totale indifferenza internazionale.

Nei campi, gli “studenti” vengono sottoposti a un rigoroso sistema di controllo fisico e mentale, sorvegliati 24 ore su 24, costretti a rinnegare le proprie convinzioni e ad elogiare il partito comunista. Chi si comporta “bene” guadagna dei “crediti” per il processo di “formazione”/“trasformazione culturale” al termine del quale viene trasferito in un altro campo dove “deve formarsi in ambito lavorativo”.
Al termine del periodo di rieducazione gli allievi vengono inseriti nel mondo del lavoro. Un eufemismo per dire che vengono costretti a lavori forzati in fabbriche che secondo alcuni produrrebbero componenti e parti per nomi famosi in tutto l’Occidente. Un think thank australiano, citando documenti governativi e resoconti dei media locali, parla di trasferimenti in massa di questi detenuti/studenti verso le fabbriche viste come un’estensione dei campi di rieducazione dello Xinjiang. Qui i nuovi cinesi sono costretti a lavorare e a vivere divisi dai cinesi “normali”. Una tesi che il ministero degli Esteri cinese ha più volte respinto dichiarando le fonti inattendibile e senza prove. Dal canto suo, il governo di Pecchino ha sempre negato ogni accusa, dicendo che le persone coinvolte frequentano queste “scuole professionali” speciali, volontariamente e che questi istituti servono a combattere il “terrorismo e l’estremismo religioso”. Un modo delicato per dire che la nuova Cina, quella che ha aperto il proprio mercato a tutto il mondo e che vende i propri prodotti in quasi tutti i negozi del pianeta, al proprio interno preferisce rimanere chiusa e arretrata e non permette a nessuno non solo di fare qualcosa di diverso, ma anche solo di pensare o di pregare in modo diverso.