Il 19 giugno 2020 il Senato della Repubblica italiana ha posto la fiducia sul “decreto legge elezioni” ponendo fine ad un percorso piuttosto travagliato. Il decreto prevede il voto in autunno per le prossime elezioni suppletive, regionali, comunali e per il referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha infatti reso impossibile lo svolgersi dei vari appuntamenti elettorali nei mesi appena trascorsi, costringendo la politica al rinvio.
Tra tutte le competizioni elettorali previste nel decreto elezioni spicca il referendum costituzionale. È la quarta volta, in oltre 70 anni di storia repubblicana, che il popolo italiano viene chiamato ad esprimere la propria opinione su una proposta di revisione del dettato costituzionale. I tre precedenti – 2001, 2005 e 2016 – hanno interessato larga parte del testo della Costituzione del 1948. Con il primo, tenutosi il 7 ottobre del 2001, confermato dagli elettori col 64,2% dei voti, con un’affluenza attestatasi al 34,1% dei votanti, viene modificato l’intero Titolo V Parte Seconda della Costituzione della Repubblica Italiana, tutt’oggi in vigore. Il 26 giugno 2005 la maggioranza dei votanti – 61%, sul 52% degli aventi diritto al voto – ha invece respinto il progetto di riforma inerente all’assetto istituzionale della Seconda Parte della Costituzione italiana. Infine, il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 si propone anch’esso di modificare l’intera Seconda Parte della Costituzione, con l’intento principale di superare il bicameralismo paritario tra Camera e Senato e la riforma del titolo V approvata nel 2001. Si registra un’affluenza record: a votare è quasi il 69% degli aventi diritto al voto con il 59,11% dei No contro il 40,89% di Sì.
Questo autunno, invece, per la prima volta gli elettori verranno chiamati ad esprimere la propria preferenza sulla proposta di riforma costituzionale relativa a tre sole disposizioni della Seconda Parte della Costituzione. Gli articoli oggetto di revisione sono il 56 e il 57, nella parte relativa alla riduzione del numero dei parlamentari – 400 deputati anziché 630, 200 senatori invece di 315, per un totale di 600 al posto dei 945 attuali – ed il 59, per quanto concerne la nomina presidenziale di “cinque senatori a vita”. Tale ultima norma, nell’intento dei padri costituenti, ha il proposito di arricchire la rappresentanza elettiva in Senato con una componente non eletta, nominabile direttamente dal Capo dello Stato, e che si contraddistingue per “altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. In caso di esito positivo della consultazione referendaria verrebbe meno il dibattito sull’interpretazione dell’articolo 59.
Alcuni studiosi e qualche ex presidente della Repubblica – Pertini e Cossiga – adottando una interpretazione estensiva della norma, ritenevano che cinque senatori a vita fossero i senatori nominabili da ciascun Capo dello Stato, indipendentemente da quanti di questi fossero in carica in quel momento. Altri, forse a ragione, secondo una interpretazione restrittiva, ritenevano che il limite di cui alla disposizione in esame riguardasse il numero totale di senatori di nomina presidenziale che si potevano affiancare ai senatori eletti, così che ciascun Presidente della Repubblica dovesse limitarsi a sostituire il/i senatore/i a vita venuto/i meno, ed in nessun caso potessero essere contemporaneamente in carica più di cinque senatori a vita. In caso di esito positivo della consultazione referendaria, prevarrà la tesi restrittiva, anche se è da notare come questa sia anche l’interpretazione ormai da anni dominante.
Il cavallo di battaglia dei promotori della riforma costituzionale è rappresentato dalla diminuzione dei costi della politica derivante dalla diminuzione degli emolumenti percepiti dai parlamentari italiani. Ma se questo, da un punto di vista matematico, è un dato oggettivo, perché meno parlamentari vuol dire meno voci di uscita nel bilancio dello Stato italiano, è stato fatto notare che in realtà “il risparmio stimato nel bilancio dello Stato si aggirerebbe intorno al 4×1000 della spesa pubblica” . Inoltre, se l’obiettivo della riforma costituzionale è esclusivamente quello consistente nella diminuzione del costo della politica, parte della dottrina costituzionalistica ritiene che sarebbe stato sufficiente un intervento sulle ampie voci di rimborso spesa che accompagnano le indennità parlamentari.
C’è poi chi sostiene che la diminuzione del numero dei parlamentari andrebbe ad incidere negativamente sul principio della rappresentatività. Difatti, ogni componente della Camera dei Deputati verrebbe eletto non più da 96006 aventi diritto al voto, ma da 151210 e ogni senatore non più da 188424 cittadini ma da 302420. Di conseguenza, ogni eletto potrebbe essere portatore di un numero ben maggiore di interessi ed aspettative, aumentando proporzionalmente anche la possibilità che tali interessi ed aspettative siano tra loro confliggenti, in quanto rappresentanti ampie e diverse aree geografiche. Ma tale obiezione viene risolta da qualche studioso guardando da un diverso punto di vista, ponendosi alcuni interrogativi: nell’era di Internet e della comunicazione politica tramite social, in un sistema elettorale che non è più un proporzionale puro con parlamentari scelti esclusivamente tramite le preferenze, si può ancora parlare del concetto di rappresentanza nei termini tradizionali, ossia del parlamentare che nel fine settimana ritorna al proprio collegio per ascoltare i propri elettori? ; e ancora, il problema della rappresentanza può essere considerato solamente da un punto di vista quantitativo, come alcuni sostenitori del No sembrano fare intendere?