Bisognerebbe cominciare dal nome: e non chiamarlo “Caso-Palamara”, e simili. Oppure, se proprio piace, declinarlo in “Palamara/Italia”. Introducendo una chiave interpretativa così adeguatamente ampia, si possono scongiurare due rischi.
Il primo, di considerare la vicenda come una questione di “incarichi”, cioè, di una competenza legittima, sia pure colta in una sua fase degenerata. Sarebbe una menzogna: la scelta di “mediare”, secondo regole di “appartenenza”, l’organizzazione degli Uffici Giudiziari è in sè abusiva. L’ANM, unicamente strutturata su base corporativa, ma secondo un andamento di durata ormai ampiamente pluridecennale, è in sè eversiva dell’Ordine Giudiziario.
Col pretesto di “ampliare la visione”, “articolare cultura giuridica e sensibilità sociale”, “dialogo istituzionale” e “formazione responsabile”, si è perseguito un disegno di tenace Conquista dello Stato/Apparato (il bruno-rosso Malaparte avrebbe forse approvato).
Sicché, deve essere chiaro, che “incarichi” o “preferenze” sono solo il velo di una assai più penetrante e compromessa realtà: la riduzione di un determinante Potere a satrapia privatistica.
Il secondo rischio, che il nome “Italia“ può aiutare a prevenire, è quello più grave: la scomparsa, dietro la coltre olezzante e viscida di una “lotta di palazzo”, dell’uomo-accusato: la ragione prima, ultima e unica, per cui la Costituzione assegna il potere di “chiedere conto”, e sulla cui personale dignità, sulla cui individuale esistenza, quel potere di “chiedere conto” si esercita, essenzialmente, senza “dare conto”.
Potrebbe infatti accadere che, a furia di leggere e strologare su “Unicost”, “Magistratura Indipendente”, “Area” e simili altre improntitudini, si dimentichi che la Magistratura si è mostrata per quello che è diventata: cioè, una Forza di Occupazione del campo democratico italiano.
Perché il sequestro, di un conto corrente, come di un patrimonio, come di una vita; la tortura di un Processo Eterno, la tirannica eterodirezione dei Poteri Elettivi, degradati a larve rappresentative di un Popolo privato della sua sovranità, sono state acquisite quale materia anonima, inerte e impotente, “a disposizione” di un Superpotere.
Tanto sicuro di sè, tanto incurante dei guasti e delle sofferenze che va provocando sull’uomo in carne ed ossa, da essersi potuto chiudere nel suo Soviet Supremo, nel suo Sant’Uffizio: devoto unicamente a nutrire quella tirannica indifferenza, quella incolmabile distanza, fra sè e l’infinito spazio del suo dominio “pieno e incontrollato”.
Questo sia precisato, per proteggerci “in via cautelare”, dalla nube di cloroformio che aleggia su questo scialo feroce di ingiustizia e prevaricazione: nulla di meno che una catastrofe morale.

Ora, due parole ulteriori di dolore e di fermezza.
A proposito della riduzione di un abominio da plotone di esecuzione ad “esondazione sindacalistica”, avrete letto o sentito due proposizioni ricorrenti: 1) “non sono emersi fatti corruttivi” -lo ha detto più volte lo stesso Palamara- e 2) “la decisione sulla nomina è avvenuta all’unanimità” –coralmente ripetuta, in “Ecclesia Militans”, a contestare la ovvia affermazione, dello stesso Palamara, circa il fatto che comune fosse il modus operandi, diciamo.
Il “fatto corruttivo” assente, sarebbe quello in cui passano di mano “denaro o altra utilità”. Non solo non ci interessa: ma possiamo, per semplicità e per giusto ossequio ai principi, dare per ammesso che, fino a prova contraria, certamente non ce ne sia stato anche solo uno. C’è stato di molto peggio. Ed è dimostrato.
La corruzione delle coscienze, la regressione all’infeudamento medievale, la manomissione metodica e capillare della Costituzione: che nel CSM avrebbe inteso fissare un Organo di presidio legale e riconoscibile della giurisdizione, per via di metastasi successive, è stato ridotto ad una sorta di ufficio-timbri. La corruzione in senso stretto, è una responsabilità individuale, e lascia intatta la speranza del rimedio. Il brigantaggio permanente, ma legalmente mascherato, distrugge senza fine. Ecco quello che c’è stato e c’è.
“L’unanimità”, che dimostrerebbe l’assenza di “contese”, di “aree”, di un bottino trafugato e poi spartito, e testimonierebbe un piano procedere in conformità alla Legge, non dimostra invece un bel nulla: perchè è unanimismo, vale a dire, un complice codice di reciproco, e reciprocamente omertoso maneggio, impudicamente attuato in dispregio assoluto di Legge e Costituzione.
Per cogliere l’autentico valore del ricorrente “unanimismo”, basti considerare le percentuali di “promozione” all’interno della Corporazione.
Fino al 2007, e a partire dal 1967, vigeva la valutazione “nel complesso”, cioè svincolata dall’esame di come gli atti giudiziari erano scritti e formati; per quarant’anni, è stata l’anima e il corpo della magistratura italiana: com’è dimostrato dai seguenti due “blocchi” storici, particolarmente significativi: uno è quello degli anni ’80 (che furono anche gli anni del processo Tortora; del Referendum –neutralizzato- sulla responsabilità civile dei magistrati; delle polemiche di Falcone, proprio sulla valutazione dei magistrati e sulla separazione delle carriere, delle sue vicissitudini, e di molte altre note vicende); l’altro è quello degli anni di Tangentopoli, e successivi. Pertanto: dal maggio 1979 al marzo 1988, furono valutati 7973 magistrati, solo 52 furono bocciati, gli altri, il 99,3%, tutti promossi; nel dopo-Tangentopoli, fra il 1993 e il 2003: valutati 9656, solo 117 non ricevettero una valutazione positiva; vale a dire che il 98,79% furono promossi.
Con questa “storia valutativa”, non stupisce che, anche dopo la riforma del 2007 (che, sulla carta, prevede un subisso di scrutini specifici) la “prassi consolidata” sulle valutazioni professionali, compiute, di fatto, per mera anzianità, si sia dimostrata coriacea e indomita: nei sette anni dal Settembre 2007 al Settembre 2014, sono stati valutati 9420 magistrati con i “nuovi criteri”: 91 non promossi; promossi tutti gli altri: il 99,1%. Todos Caballeros.
Si ha voglia a rimarcare che l’unanimità neghi le camarille. Palamara, nel 1967, non era nemmeno nato.
Dunque, Palamara non è Palamara, e l’ANM non è l’ANM. Entrambi sono l’Italia, o una sua larghissima parte.
ANM è il Giornalismo di Apparato, che contrabbanda posture pavoliniane per “rapporto con le fonti”; e la connessa Accademia scribacchina.
ANM è il compiacimento serale con cui, per trent’anni, milioni di Signor Mario e di Signora Maria hanno gozzovigliato in prime time di fronte a sudici spettacoli patibolari.
ANM è Falcone dichiarato “Nemico Politico” dai suoi “Colleghi”.
ANM sono i depistaggi, e gli insabbiamenti, che stanno inghiottendo in un ovattamento soffocante le domande dolenti di Fiammetta Borsellino.
ANM è il Parlamento Mutilato, presidiato da nutrite schiere di pretoriani, per cui Fascismo è il più o meno comodo rutto salviniano, e poi applausi o, peggio, un calcolato sottotono, verso le turpitudini di “intercettazioni universali”, di “misure preventive”su scala di massa, di attività economiche private, quando va bene, da mandare in giro con la Lettera Scarlatta, sotto cui appena camuffare ogni più obliquo e pervasivo razzismo, a base calabrese, campana o siciliana.
E ANM è il silenzio del dott. Davigo sui “colleghi”. Ma questa è la parte migliore.