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April 27, 2020
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Coronavirus: la pazienza dell’Italia è finita, ora serve un governo di competenti

Ciò che più urta di quello di Conte è il tangibile vuoto di disegno, l’evanescenza della meta, il dilettantismo assunto come veste dell'irresponsabilità politica

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Time: 5 mins read

Non è la conferenza stampa, condotta col consueto tono fratescamente azzimato che non finisce di stupire; è infatti ormai l’ennesima, di una successione che pare interminabile. 

Nè l’insieme di banalità laceranti (“Se ami l’Italia, mantieni le distanze”); di reticenze contenutistiche (buona metà dell’apparizione -più le domande ammesse da Casalino- trascorsa a parlare di attività motorie: come se la sfida della vita, che ci aspetta lí fuori, fosse il torneo in piazzetta, e non lo spettro dei nostri conti correnti); di volgari bugie (il mondo ci guarda, il mondo ci ammira: e perché mai dovrebbe ammirare il Sistema che, con ogni evidenza, fra Centro e Regioni, ha conseguito il peggior risultato per numero di morti? Fosse solo per la loro memoria, decenza vorrebbe che certe pose nemmeno si concepissero, prima ancora che manifestarle con simile, inaudita, vanagloria).

Quello che più urta, però, è altro. O altro ancora. È il tangibile vuoto di disegno, di condotta, l’evanescenza della meta, il dilettantismo assunto come veste ipocritamente mite della irresponsabilità politica.

Apriamo, ma non apriamo. Seguiamo “La Curva”. E come la seguiamo, questa Curva? Con i nuovi contagi. Allora, perché non variare, fra regioni che ne hanno una più bassa, a volte, molto più bassa (ad es. fra la Sicilia e la Lombardia, per abitante, la differenza è di 1 a 12; e, per i deceduti, di 1 a 30) e quelle con condizioni più esposte? (Il Prof. Crisanti, a cui per unanime riconoscimento, si deve il successo della ragguardevole strategia adottata dalla Regione Veneto, lo ha proposto vigorosamente stamattina: “Riaprire tutta Italia? Follia” .

Perché distinguere, assumere un criterio, implicherebbe assumere l’onere di una scelta, di una possibilità, una responsabilità riconoscibile, moralmente e politicamente sanzionabile. Meglio non dire niente, perciò. Non sia mai, che chi ascolta, sia pure mestamente cauto per l’autonoma intelligenza di una tragedia tanto vasta, possa dire: “Ho capito”. 

Si vuole “o tutti o niente”? E bisognerebbe ragionare sugli stessi paradigmi “comuni”, allora.

Il contagio, la curva, si è ampiamente detto, sono funzionali a prevenire la saturazione ospedaliera: occorre “viaggiare” con circa il 50% delle Rianimazioni disponibili: perché, proprio nel previsto caso di un aumento dei contagi, considerata la variabilità del periodo di incubazione, occorre scongiurare il “picco” della richiesta improvvisa e simultanea di un surplus di prestazioni. Ne viene, che il collo di bottiglia del sistema, sono e sempre rimangono, i posti-letto e, dietro di questi, le rianimazioni.

In vista di un futuro di cui è certa solo l’indeterminatezza, anche cronologica, era dunque lecito attendersi un piano per estendere il predetto collo di bottiglia “comune”: non siamo più al 21 Febbraio, giorno del primo decesso, siamo in vista del 4 Maggio: ci arriveremo con due mesi e mezzo di sofferenza collettiva, portata con efficace dignità.

Più rianimazioni, minore rigidità fra temuto “ritorno” dei contagi e nuove chiusure. Più tracciamenti, meno rischi di contagio. Un metodo, un’idea, ragionevolmente compatibili con una realtà di “lunga convivenza”. E invece: l’autocertificazione, una ridda di semidivieti, di semipermessi, una selva di generiche esortazioni, di catechismi a tre un soldo. 

Né le diverse competenze di Stato e Regioni, potrebbero essere portate a giustificazione di simile, incredibile, schizofrenía valutativa. Chi dovrebbe, fra costoro, alzarsi e dire: “guai a parlare di terapie intensive”, dopo tutto quello che si è affermato su questa materia?

Ma il collo di bottiglia sanitario, lasciato lí, fra “vedremo” e “chissà”, a sua volta, è controfigura del cappio economico. Che si stringerà, non è un mistero. 

Un governo, di nuovo, a cui gli italiani, di là da inoffensivi borbottii, hanno concesso ogni sorta di indulgenza, ogni sorta di generosa comprensione per la patente mediocrità della sua compagine (e che hanno affidato persino a divagazioni canore i loro interni timori, fingendo, come solo loro sanno fare, di credere alla loro stessa leggerezza, ai luoghi comuni di cui invece sanno misurare l’eterna insipienza), un Governo, a questo Popolo, non una ignobile Massa, a queste donne, a questi uomini, a questi padri e madri, a questi figli e figlie, deve dire la verità. 

Deve dire se ha un’idea di chi debba sopportare il primo, terribile, urto, quando l’Iceberg arriverà. 

Deve dire cosa intende fare per la prima linea: per chi, fra i sempre vituperati “bottegai”, nemmeno potrà riaprire, o dovrà chiudere dopo una più o meno breve agonia. Per chi, lavoratore dipendente, perderà l’unico reddito, per sè o, peggio, la famiglia. Per chi, industrioso “terzista”, alacre “outsourcer”, perno prezioso ma anonimo di “catene di valore” mondiali e strategicamente “politiche”, rischia l’estromissione, o il declassamento delle sue conoscenze e delle sue abilità, a mera manovalanza.

Un governo, a chi sente stringersi il cappio, deve dire che almeno sa che di questo si tratta, e non dei 600 Euro, o di una cassa integrazione che peraltro, fin qui, o è rimasta “in corso di esecuzione”, o è stata materialmente anticipata da volenterosi “principali”.

Soprattutto, un Governo, non deve approfittare di nessun sentimento; non della paura, non della speranza. E non deve approfittare della pazienza di nessuno. 

Non sappiamo se il Presidente della Repubblica abbia idee precise sulle prossime settimane. Possiamo però dirci sicuri che l’Italia merita, in un momento storico in cui si gioca il tutto per tutto, dei settant’anni di vita repubblicana, pacifica e prospera come nessun altro periodo in quindici secoli; possiamo dirci sicuri, dicevo, che l’Italia meriti i suoi migliori generali, i suoi migliori sergenti. I suoi migliori pensatori e i suoi migliori padri di famiglia, condotti convincentemente a far “fronte comune”.

E questi non lo sono, i migliori. Nemmeno da lontano.

Il Parlamento provvederà. Ne ha tutti i poteri. E ci sono forze politiche, soggetti, sparsi fra le varie “fazioni” (non chiamiamoli “partiti”, per pietà verso loro e verso noi), che tuttavia si può, di deve, auspicare recuperino pure solo un minimo di una visione alta dei loro doveri. 

I “whatever” non sono stati lanciati per il gusto di un gargarismo. Speriamo solo che, per indossare l’elmetto, non occorra attendere lo sprone dei bombardamenti.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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