L’unico atto fin qui rivolto dal Governo al Parlamento, in un momento storico-politico in cui i minuti sono giorni, e i giorni, anni, è la “Relazione al Parlamento” del 4 Marzo: un documento non normativo, di carattere accessoriamente finanziario, necessario “in relazione alle iniziative immediate, di carattere straordinario e urgente, che il Governo intende assumere per fronteggiare” il Coronavirus.
Poi, niente.
Quindi, la nota sequela di tre DPCM, una Ordinanza, una Direttiva, due Decreti-Legge (6 e 16 Marzo). A Parlamento chiuso.
Infine, l’ultimo provvedimento, che imporrà il blocco delle attività produttive nazionali. Allo stato, tuttavia, non ancora pubblicato (sicché, ne è formalmente ignota la natura); peraltro, secondo le ormai consuete indiscrezioni, politicamente e moralmente imputabili all’Ufficio Stampa di Palazzo Chigi diretto dal noto dott. Casalino, pare destinato ad entrare in vigore solo lunedì (pertanto, rimane per lo meno dubbia l’ennesima “anticipazione” via FB).
Se riconducibili a deliberato proposito, o a colpevole incapacità, tali metodiche indiscrezioni, poco importa qui appurare. Rileva unicamente che, se errare è umano (“l’assalto notturno ai treni”, innescato da simile “dico e non dico”), perseverare è diabolico. Mi si perdonerà la piana movenza gnomica, ma è tempo di essere piani e diretti.
Ora, se è chiaro “il caso straordinario”, tanto più è necessario che il Popolo Sovrano, anche formalmente, venga investito della responsabilità per una generale “messa a punto”.
Nessun ostacolo, che la conversione dei DL, com’è noto di competenza parlamentare, offra la giusta via per una immediata pubblica discussione: su quanto fatto, sul da farsi, sul come e sul perché.
La quasi generalità della pubblica opinione e della cittadinanza, come pure, delle forze politiche, ha fin qui tenuto una condotta vigile, pronta e, sia detto, complessivamente compresa delle gravissime urgenze del momento.
Ma nessuno di noi, si dice: nessuno, già da qui a due mesi, avrà un futuro anche solo lontanamente paragonabile al suo passato.
Il Popolo Sovrano, vale a dire, ciascun uomo e donna di questa comunità nazionale, deve sapere e deve decidere; o, almeno, poter criticamente convalidare.
Deve sapere cosa pensare di sè e dei suoi figli.
Deve sapere di essere coinvolto nei reali processi decisionali, che incideranno come nulla prima in tempo di pace, persino sulla stessa misura fisica del suo agire quotidiano.
Gli italiani faranno il giusto: ma devono poter interloquire.
Altrimenti, la conclusione è una sola. Che si intende avviare, e portare a compimento, la soppressione per erosione della democrazia parlamentare in Italia: cioè, della Repubblica. Una sorta di “fase storica finale”, silenziosa e liquidatoria, dopo la lunga “fase storica iniziale”: dopo i lunghi anni di canea, di lapidazioni e di degradazioni. Pretesto prima, pretesto ora.
C’è, infatti, un modo efficace per portare a compimento la distruzione del Parlamento, dopo -non si può, non si deve dimenticare- trent’anni di “deligittimazioni preliminari”: ed è di far passare l’idea che non può riunirsi per timore del contagio: mentre ancora decine di migliaia di italiani continuano ad esporsi, a cimentarsi, a lottare col contagio, per resistere: per puntellare almeno i muri maestri.
Sarebbe una calcolata e speciosissima “inoculazione di odiosità”, di esposizione ad un sordo ma potente e definitivo pubblico disprezzo.
Ovvia, ne sarebbe la conclusione: il Parlamento non è “un muro maestro”; sicché, può andare diruto.
Poi, però, quando dolore e penuria avranno scavato i loro solchi mortiferi, per farsi sentire, resterà solo la sommossa.
Se lo scrivano il Presidente Conte e i numerosi apprendisti stregoni, vecchi e nuovi che lo circondano.
Se si chiederà troppo senza permesso, i duri conti che verranno saranno saldati nel modo peggiore: quello che spingerà a passi definitivamente liquidatori della pace e della libertà.