“Nonostante la nostra campagna abbia vinto nel dibattito ideologico, stiamo perdendo nel dibattito sull’eleggibilità”. Così Bernie Sanders, la scorsa settimana, ha sinteticamente analizzato i risultati che impietosamente certificavano la continuazione del cosiddetto “JoeMentum”, l’inatteso exploit di Joe Biden iniziato nel Super Tuesday. E nell’ultimissima competizione elettorale, sovrastata dallo spettro del coronavirus, il vantaggio dell’ex Vicepresidente sembra aver ormai diradato le possibilità di ottenere la nomination per il senatore del Vermont: secondo gli ultimi conteggi, Biden, che ieri ha vinto almeno 249 dei 441 delegati in gioco, ha ormai superato quota 1140, mentre Sanders è a 861. 1991 è il “numero magico” necessario per diventare ufficialmente il candidato presidente dei democratici.
In effetti, c’è chi in queste ore si chiede che cosa stia aspettando il paladino dei “democratici socialisti” d’America a ritirarsi dalla corsa. Del resto, una delle accuse che Hillary Clinton ha mosso a Sanders in merito alla competizione del 2016 è proprio quella di aver contribuito a dividere la base, rifiutandosi di fare per tempo un passo indietro. Dal canto suo, il manager della campagna di Sanders ha fatto sapere che il senatore e i suoi consiglieri stanno valutando con attenzione i prossimi passi. Non c’è dubbio, peraltro, che le condizioni in cui si stanno tenendo queste primarie sono senza precedenti: e a detta di molti, la pandemia sta rafforzando le argomentazioni che Sanders ha messo in campo per perorare la principale proposta della sua agenda politica, Medicare for All. Proprio a questo proposito, al netto dell’inelegante e imprecisa uscita di Biden sulla sanità italiana nel dibattito di domenica, persino la CNN, in queste ore, racconta con una punta di stupore e ammirazione come nel Belpaese le cure per il virus siano un diritto per ogni singolo cittadino, indipendentemente dallo spessore del suo portafogli.

Insomma: c’è chi sostiene che Sanders stia tenendo duro per acquisire più “leverage”, cioè per avere più “peso”, grazie al bottino di delegati conquistato, quando il partito dovrà elaborare la propria piattaforma programmatica in vista delle elezioni di novembre. Intanto, dal campo avversario, nessuna voce si è ancora levata per spingere il senatore del Vermont ad abbandonare la corsa: e a detta di molti analisti, non è stato un caso. Perché la nuova parola d’ordine della campagna di Biden, ormai proiettato al confronto con Trump, è “unificare”: unire il partito, e soprattutto evitare di urtare i focosi supporter del suo rivale progressista. Per vincere a novembre, avrà bisogno anche (e soprattutto) di loro.
È proprio questa la sfida principale che lo attende al varco. Biden ne è ben consapevole, e non a caso, martedì sera, ha rivolto parole concilianti agli elettori del suo avversario: “Vi ascolto”, ha detto. “So che cosa è in gioco, so che cosa dobbiamo fare”. E ha proseguito: “Il nostro obiettivo come campagna, e il mio obiettivo come candidato alla presidenza, è di unificare il partito e poi unificare la nazione”. L’ex vice di Obama ha poi sottolineato che, al di là delle differenze strategiche con Sanders, “condividiamo una visione comune” su molti temi, come l’ineguaglianza e il cambiamento climatico. Quindi, ha riconosciuto ai supporter del senatore del Vermont di aver “riversato una notevole passione e tenacia in tutte queste questioni”, e di aver contribuito a plasmare “il dibattito nel Paese”.
Queste parole sembrano però parte di una strategia più complessiva di avvicinamento agli elettori più liberal. Sul palco del dibattito di domenica sera, dopo essersi impegnato a scegliere una donna come vice, Biden ha anche aggiunto di aver recentemente parlato con Elizabeth Warren, la candidata progressista del Massachusetts recentemente ritiratasi dalla corsa. In particolare, il frontrunner dem ha dichiarato il proprio supporto a una proposta della senatrice per rivedere il meccanismo di fallimento dei consumatori: uno shift non di poco conto, sottolinea il New York Times, visto che Biden e Warren si erano scontrati sull’argomento più di un decennio fa, quando lei era una professoressa di legge di Harvard e lui un senatore del Delaware. Non solo: poche ore prima del dibattito, la sua campagna ha annunciato che appoggerà la proposta di rendere college e università gratis per molti studenti, idea che Sanders sostiene (in una versione più radicale) da molti anni, e che fu accettata anche da Hillary Clinton nel 2016.
È “un passo nella giusta direzione”, ha commentato Maurice Mitchell, direttore del Working Family Party, movimento che aveva sostenuto la candidatura di Warren e ora appoggia Sanders. Eppure, secondo Mitchell, non basta: per abbracciare davvero l’ala più progressista, soprattutto i più giovani, l’ex Vicepresidente dovrà spingere la propria agenda più a sinistra su molti altri temi: come il cambiamento climatico e la tassa sulla ricchezza.
Già, i giovani: non è un mistero che il cuore della base di Sanders sia costituito da loro. Il candidato democratico socialista ha per ora vinto il voto degli under 30 e si è dimostrato forte anche con gli elettori fino ai 45 anni. Alleata di Biden è stata invece l’affluenza, più bassa di quanto ci si attendesse, dei più giovani: ma per vincere la sfida con Trump, sarà necessario convincerli a votare. Sarà in grado di farlo “Uncle Joe”?
Per ora, la strada che l’ex vice di Obama ha davanti pare essere tutta in salita. I supporter di Sanders, si sa, sono tra quelli mediamente più “fedeli” al proprio paladino, più restii a votare per un altro candidato e meno ideologicamente legati al “vecchio” partito democratico. Secondo un sondaggio di Emerson College/7 News di febbraio, circa la metà dei sostenitori del senatore del Vermont dichiara che non concederebbe il proprio voto a nessun altro o, perlomeno, dovrebbe valutare se farlo. E una recente ricerca del Washington Post, che ha messo a confronto gli elettori di Trump e quelli di Sanders, ha trovato questi ultimi “leali e non facilmente influenzabili”: davanti all’eventualità che la sua nomination comportasse una sconfitta a novembre, solo il 20% dei suoi supporter – contro il 34% di quelli degli altri candidati – si sono detti disposti ad appoggiare un altro candidato. Non solo: quando è stato fatto notare loro che restare fedeli a Sanders avrebbe significato indebolire le chance di vittoria del partito democratico a novembre, solo il 3% si è dichiarato aperto a votare qualcun altro.
Tale “intransigenza” affonda le proprie radici nella natura stessa della “rivoluzione politica” di Sanders, originariamente lanciata in contrapposizione all’establishment trasversalmente inteso, repubblicano e democratico insieme. La sua piattaforma sembra dare priorità, più che alla necessità di battere Trump in sé e per sé, all’obiettivo ambizioso (e per alcuni naive) di correggere le storture di un sistema che ha contribuito a portare il tycoon nell’Ufficio Ovale in prima istanza. Solo così Sanders è stato in grado di creare un “grassroots movement”, un “movimento dal basso” senza precedenti, e a raccogliere un ricco tesoretto di donazioni senza mai affidarsi a lobbisti, multinazionali e grandi aziende, PAC e Super PAC. Una base che Biden difficilmente riuscirà a conquistare e infiammare: ma se vorrà almeno convincerla a sostenerlo (controvoglia), dovrà prepararsi a fare concessioni importanti – ben più coraggiose di quelle fatte finora – all’area più progressista del partito.