Sulla questione della prescrizione dei reati, si fronteggiano due menzogne, fra loro apparentemente incompatibili, ed entrambe sostenute, in contesti diversi ma a loro modo “coordinati”, dai fautori della Tirannia Inquisitoria.
Per una prima menzogna, la dichiarazione di prescrizione sarebbe una sorta di condanna imperfetta; per l’altra, essa impedirebbe “l’accertamento della verità.”
Ma se è una condanna, sia pure imperfetta, come può una dichiarazione di prescrizione ritenersi in conflitto con “la verità”? Delle due l’una, allora: o il processo concluso con la prescrizione non implica in effetti alcun accertamento; o, se si vi possono ugualmente costruire addirittura intere “storie d’Italia” (basti pensare all’ “Andreotti prescritto”), non ci sarebbe ragione di temere la prescrizione.
Il punto è che la doppia menzogna mette a nudo l’autentico scopo di questo decisivo passaggio storico-culturale, e normativo. Che è di sancire formalmente come l’unico accertamento giurisdizionale legittimo sia, in realtà, quello di condanna; e che l’assoluzione sia una sorta di “sabotaggio permanente”, dovuto alla Difesa.
Aggiungo qui, quanto a presupposti culturali, gli unici che veramente contano, come tanto la “Spazzacorrotti”, quanto la cd Riforma Orlando, che ha già introdotto sospensioni del tempo prescrizionale a prova di vita media, sono parenti stretti: diciamo fratello minore (Orlando) e fratello maggiore (Bonafede); sicché non è improbabile un futuro accordo, che farà la letizia di chi si ciba di parole vuote.
Ma torniamo alle menzogne fondamentali.
La dichiarazione di prescrizione non equivale ad una condanna, cioè ad un accertamento di responsabilità monco, cui il tempo tiranno ha tagliato le unghie (cioè la pena). Ma è un accertamento giurisdizionale come un altro. Pieno. Cui si nega, però, la “capacità sanzionatoria”. Perchè?
Le nostrane Tricoteuses sostengono che un reato non può essere dichiarato estinto per prescrizione, se non si ritiene esistente. Si estingue quello che c’è, non quello che non c’è, osservano. Tanto è vero, proseguono, che l’art. 129 del nostro Codice di Procedura Penale, pur quando è decorso il tempo prescrizionale, impone al giudice di assolvere con formula piena. Se il giudice dichiara la prescrizione e non pronuncia assoluzione, concludono, ciò significa che, pur ritenendo il reato, ha dovuto subire la “museruola” della prescrizione. Sicché, la mancanza di una “pena effettiva” è una sorta di “furto di giustizia”, un albero da cui è stato indebitamente sottratto il frutto.
Propaganda, e piuttosto bieca, anche.
Infatti, questa regola alternativa, prescrizione-assoluzione, non è libera, ma sottoposta a precise condizioni.
Primo: l’assoluzione, al posto della prescrizione, va pronunciata “quando dagli atti risulta evidente che…”., cioè quando vi sono elementi univoci, quasi sovrabbondanti, per assolvere.
Secondo: questa valutazione, se “agli atti” vi siano cioè elementi ampiamente discolpanti oppure no, va fatta “in ogni stato e grado del processo”; vale a dire, nell’istante in cui matura il tempo di prescrizione. Tale condizione comporta, allora, che se il giudice dichiara la prescrizione, non significa che non vi siano risultanze idonee a giustificare un’assoluzione, ma solo che, al tempo (giorno, mese, anno) in cui è giunto il processo, non ce ne sono con quelle caratteristiche di sovrabbondanza ed univocità.
Solo che, quando è maturata la prescrizione, i poteri di valutazione del giudice si restringono, e gli impongono di assolvere solo in presenza di risultanze sovrabbondanti.
Tale consapevolezza, chiamiamola epistemico-morale, spiega quell’ “incapacità sanzionatoria”. E’ una mediazione che sublima sensatezza ed equità.
Il codice prevede che, maturata la prescrizione, si possa assolvere solo “quando risulta evidente che…” e non anche quando risulti e basta, perché questa è una regola: e come ogni regola che si rispetti, media fra interessi contrapposti. L’interesse della pubblica accusa a provare la sua tesi, l’interesse del cittadino a non rimanere “a disposizione” del processo per un tempo indefinito.
Sullo sfondo, però, prevale la persona sottoposta a processo (più chiaro di “imputato”), non il Pubblico Ministero.
L’accertamento giudiziario non è un diritto dell’Accusa: è un suo dovere-possibilità, che si muove in uno spazio concesso dall’individuo allo Stato. Tanto è vero che solo esso, e non il Pubblico Ministero, può rinunciare alla prescrizione. Si rinuncia al proprio, non all’altrui. E ciò che è proprio è, repetita iuvant, di non essere trasformato da “soggetto di diritto”, cui si può chiedere conto dei suoi comportamenti, in materia amorfa, passivamente destinata ad infinite esercitazioni ipotetico-congetturali.
Tuttavia, anche su questo punto, rinuncia alla prescrizione e ulteriore corso del processo, bisogna andarci piano.
L’equivalenza fra una rinuncia alla prescrizione e “buona fede” della persona accusata, è una coda velenosa di quell’impianto doppiamente menzognero. Implica, né più né meno, l’infallibilità del giudizio, cioè, giudici capaci di riconoscere sempre l’essere umano innocente: pertanto, ecco l’implicazione velenosa, se questi preferisce la prescrizione, e non chiede di proseguire, è perché sa di essere colpevole. Lasciamola perdere, l’infallibilità (come quella emersa nei Processi-Borsellino, magari).
In un Paese civile, libero e democratico, quando matura una prescrizione, se proprio si vuole dare il tormento a qualcuno, occorre darlo ai Soggetti Pubblici del processo, (Pubblico Ministero e Giudice) non all’individuo.
Ma la Repubblica Italiana non è più, di fatto, un Paese civile, libero e democratico. E se non si sconfessa questa successione di menzogne, non lo sarà più nemmeno formalmente.