Nella mentalità generale, sta passando l’idea che le società umane siano normalmente organizzate attraverso forme democratiche di governo. Sarebbe il caso di memorizzare che è vero il contrario: è eccezionale, nel senso che è la prima volta che accade nella storia, che così tanti uomini e donne, e così tanti stati godano delle libertà, dei diritti e dei doveri che, per convenzione, riassumiamo nel termine “democrazia”. La novità è figlia di una serie di fenomeni, intervenuti soprattutto nel secolo scorso.
L’evidenza suggerisce che il primo per importanza è dato dalle tre guerre mondiali del Novecento, due combattute sul campo e l’altra “fredda” ma non per questo meno foriera di effetti politici. Dopo i più di 100 milioni di morti per guerra, macabro e vergognoso record che il XX secolo ha incasellato nella storia dell’evoluzione, popoli e governi hanno introiettato la sensazione che vi fosse un nesso tra i folli eccidi delle grandi guerre e le forme di governo del nazionalismo autoritario, accettando che le società si riorganizzassero sul principio di partecipazione e controllo popolari, e della collaborazione tra le nazioni.
Il che non ha comportato che ovunque e comunque i governi si trasformassero in democrazie, ma ha consentito, dove si dessero le condizioni, che le società nazionali o plurinazionali fossero “sospinte” o “accompagnate” verso forme di governo democratico. Vero è che anche dopo le due guerre mondiali, episodi orribili come le purghe staliniane, la rivoluzione culturale cinese, le uccisioni razziste e ideologiche dei khmer rossi cambogiani e dei Tonton Macoute haitiani, gli ammazzati dei fascismi argentino cileno e brasiliano, così come l’infinita serie di vittime fatte dai signori della guerra sempre pronti a spuntare tra Africa Asia e America Latina, hanno ostacolato o rallentato l’espansione delle democrazie; ma la marea democratica al potere, soprattutto nell’ultima decade dello scorso secolo, è un risultato indiscutibile dell’umano progresso. La caduta di decine di regimi fascisti e comunisti in Europa Asia e America Latina, tra gli anni ’70 e ’90 del Novecento, sta lì a testimoniarlo.
Nel processo globalmente inteso, appare con evidenza lo zampino attivo della più potente democrazia della contemporaneità, gli Stati Uniti d’America: dall’imposizione delle costituzioni democratiche ai debellati Giappone e Germania sino alle fallite “primavere arabe”, passando per la pressione strategica sui regimi comunisti dell’Europa centrale ed orientale, dove i suoi principi democratici erano coniugabili con gli interessi economici e geopolitici Washington non ha smesso di sostenere lo sviluppo di società liberali, in termini politici ed economici. Non si è, purtroppo, trattato di fenomeno universale e univoco (si pensi al contributo offerto ai gorilla golpisti e ai fascisti tagliagole in America Latina e nel sud Europa, per fare un esempio). Ma è pur vero che, salvo situazioni eccezionali, sono le condizioni locali più dell’intervento straniero, anche quello di una superpotenza, a consentire l’organizzazione democratica delle società.
Nel ruolo americano di sostegno alla formazione di regimi nazionali democratici, del tutto cessato con l’attuale presidenza è bene sottolineare, si ritrova un elemento utile alla riflessione sui rischi che le democrazie stanno affrontando in occidente, derivanti dall’accumulo di inefficienze nella macchina amministrativa, e dall’inefficacia nell’azione di governo. La democrazia americana, diversamente da quella britannica e in linea con quella francese, nasce “plebea”, nel senso che quel termine espletò all’interno della società antico romana. Se i secoli di crescita democratica in Britannia si caratterizzano per la progressiva perdite di peso di re e aristocratici, nel modello americano di democrazia re e aristocratici sono persino assenti. I padri fondatori sono repubblicani; nella costruzione del nuovo stato federale guardano a Bruto liberatore di Roma da Cesare, e poi alla messaggeria dei rivoluzionari plebei dell’89 francese.

Questa specifica forma di democrazia repubblicana, per essere generata dal sommovimento dei rapporti tra le classi, per affidare la propria direzione alle élite borghesi espresse dal popolo, è più mobile e maggiormente sottoposta alla pressione delle passioni popolari. Fatica più di quella aristocratica e monarchica ad assicurarsi la sopravvivenza, e, per durare, necessita, più delle forme aristocratiche e monarchiche di democrazia, di essere efficiente ed efficace. Monarchi e aristocrazie resistono ai propri scompensi anche per secoli interi. Non così le repubbliche, che hanno la vocazione a soffrire maggiormente, sino a perirne, l’inefficienza, le disuguaglianze, il disordine. Gli imperi asburgico, ottomano, zarista, per stare ai tracolli di inizio Novecento, erano in bilico da moltissimo, ma caddero solo per mano della Prima guerra mondiale. Più o meno nella stessa fase storica, la repubblica di Weimar durò lo spazio di un mattino, quella di Spagna vide la luce per essere subito soffocata, quella francese trovò un assetto stabile solo con la Cinquième inventata dal generale Charles de Gaulle.
In questi nostri ambigui giorni di democrazie repubblicane malate di nazionalpopulismo, la constatazione del disordine e dell’instabilità che vanno investendo regimi di consolidata democrazia liberale, interpella sulla loro capacità a durare nei termini che abbiamo conosciuto, soprattutto nell’emisfero occidentale.
Il primo e più serio interrogativo riguarda, ovviamente, le cosiddette democrature, ovvero quei governi formalmente democratici che nei fatti risultano essersi allontanati dagli autentici principi di democrazia e di rispetto dei diritti umani. Il fenomeno non riguarda soltanto paesi come la Turchia o la Russia, due citazioni a tutti note, ma si estende anche a taluni paesi membri a pieno diritto dell’Unione Europea.
Il secondo interrogativo, per certi versi più stimolante, anche perché più sfuggente e diffuso, riguarda i limiti nella capacità dei governi democratici di garantire sicurezza, stabilità, giustizia e ordine: ovvero quelli che i cittadini di ogni stato considerano beni primari. Questi limiti si vanno rendendo espliciti in troppi paesi, dando vita a un fenomeno piuttosto generalizzato che sta sorprendendo per la capacità di reiterazione. Il tutto in barba alla logica politica che detta agli stati di avere cura di quei beni primari che sono a fondamento della loro esistenza e sopravvivenza.
Nella quotidiana cronaca della vita politica dei paesi a regime democratico liberale si sta assistendo alla frequenza di quattro casistiche: difficoltà a formare governi omogenei e stabili, incapacità di controllo sui conflitti sociali ed economici, impermeabilità delle istituzioni agli input dei governati, banalizzazione e degrado della comunicazione e dell’informazione pubbliche. Come casi di riferimento valgano per la prima casistica Spagna e Italia, per la seconda Francia Cile e Argentina, per la terza Regno Unito e ancora Italia, sull’ultima Usa e Venezuela. Le quattro sindromi, per le ragioni riassunte di seguito, mettono a rischio, come le democrature, l’espressione piena di democrazia.
La tendenza della gente a non solidarizzare più con il bipolarismo elettorale, ha generato la pletora di partiti e partitini personalistici e deideologizzati che non riescono a formare maggioranze stabili di governo: la giravolta estiva di M5S e Lega, la quarta elezione parlamentare spagnola in quattro anni, sono esempi dei danni in termini di credibilità del quadro democratico e della sua capacità di governo, che il disorientamento degli elettori sta provocando.
La crisi economica generalizzata del decennio, parzialmente ridotta nell’ultimo biennio, ha lasciato uno strascico di conflittualità sociale che va immediatamente ricomposta, per i rischi che pone al sistema democratico, tanto più che molti osservatori, guardando agli effetti che le misure americane su commercio internazionale e riscaldamento climatico stanno generando, prevedono un nuovo ciclo di crescita al ribasso. I sabato parigini dei gilet gialli, il cambio di politiche sociali atteso dal nuovo governo di Buenos Aires, gli scontri purtroppo letali delle piazze cilene, hanno messo a nudo tensioni talvolta insospettate che stanno incidendo sulla resistenza del tessuto democratico.

In Gran Bretagna l’incapacità del ceto di governo di rapportarsi correttamente all’elettorato sulla questione Brexit, sta ponendo serie sfide alla stessa identità dello stato monarchico, con spinte separatiste in Scozia, Irlanda del Nord, territori caraibici; in Italia l’incapacità della politica di sconfiggere corruzione e criminalità organizzata, far funzionare la giustizia, abbassare imposizione fiscale e debito pubblico riducendo al contempo i suoi costi, sta corrodendo lo spirito di appartenenza generando larghe aree di non voto, astensionismo elettorale, fuoriuscitismo.
La tweetmania e l’agitazionismo verbale di personaggi come Trump, Maduro, Salvini, vanno a colpire il ruolo del parlamento in quanto sede del dialogo tra rappresentanza popolare ed esecutivo.
Non riprendersi da queste sindromi, significa predestinare le democrazie al declino, per cattivo funzionamento.
Nei giorni della protesta del popolo di Hong Kong a tutela della pienezza del proprio sistema democratico, valga un richiamo alle parole che gli studenti di Tien An Men indirizzarono ai governanti cinesi nelle settimane che precedettero la strage del 4 giugno 1989:
“Non vogliamo un grande salvatore, ma un efficiente sistema democratico … piuttosto dieci diavoli che si controllino l’uno con l’altro che un mandarino con poteri assoluti”.