È tra i più progressisti in campo, insieme al senatore del Vermont che si definisce “democratico socialista”, Bernie Sanders. Lei, la 70enne Elizabeth Warren, “socialista” non si è mai dichiarata, ma afferma di avere un piano per inchiodare Wall Street alle sue responsabilità, per rafforzare i diritti dei lavoratori e per far pagare tasse proporzionate ai profitti alle “corporation”, le multinazionali. “I have a plan”, infatti, è diventato uno degli slogan della sua campagna. E poco prima di presentarsi, lunedì sera, sul palco montato sotto l’iconico arco di Washington Square Park, Manhattan, la candidata democratica ha reso pubblico il 42esimo “plan”, per mettere fine alla corruzione a Washington.
Join us live from Washington Square Park tonight as I share the story of how working women organized to change the course of history—and how we can make the big, structural change our future depends on. #WarrenNYC https://t.co/LKvnA31wIh
— Elizabeth Warren (@ewarren) September 16, 2019
In una piazza gremita di almeno 20mila persone – dato su cui avrebbe poi dubitato in un tweet il presidente Trump –, Warren ha annunciato di voler togliere ai lobbisti il potere di contribuire economicamente alle loro campagne preferite. “Il mio piano”, ha detto la senatrice, “non solo impedisce ai lobbisti di fare contributi politici, ma anche di fare donazioni e ospitare raccolte fondi per i candidati”, ha spiegato. Ottimo proposito, se non fosse che nel corso della sua carriera politica – ha rimarcato qualche attento osservatore – Warren abbia accettato circa 95mila dollari da lobbisti registrati a livello federale, secondo i dati consultati da CNBC.
Da allora, però, la senatrice che vuole diventare Presidente ha decisamente cambiato musica: Warren, infatti, può vantare di aver raccolto ben 19 milioni di dollari nel secondo quarto di campagna elettorale – periodo di tre mesi terminato a giugno –, superando l’”amico rivale” Sanders. Proprio come il senatore del Vermont, la candidata ama definire la sua campagna un “grassroot movement”, un movimento dal basso, sostenuto unicamente da piccole donazioni provenienti dai suoi sostenitori. Small donors che, peraltro, lei ama ringraziare direttamente per telefono, come documenta sui social network. Eppure, tutto ciò non sarebbe sufficiente a marcare la differenza tra le sue proposte e quelle di Sanders, suo competitor principale proprio perché così politicamente simile nell’agenda. Sarà forse per questo che, secondo notizie uscite di recente, esisterebbe un sottile filo di comunicazione, rigorosamente tenuto nascosto, tra la campagna della Warren e Hillary Clinton. Tenuto nascosto perché, si sa, non si può dire che l’ex Segretario di Stato e sfidante di Donald Trump sia particolarmente ben vista in ambiente progressista. Eppure, per battere Sanders, potrebbe rivelarsi fondamentale vincere il supporto delle donne, specialmente afroamericane, che Clinton era stata in grado di conquistare.

Che cosa distingue Warren da Sanders, dunque? La risposta più semplicistica, ma che può fornire una chiave di lettura importante, è anche la più ovvia: non solo la senatrice è di 8 anni più giovane, ma soprattutto è una donna. Circostanza che, se storicamente rappresenta più un ostacolo che un vantaggio, la candidata sta facendo suo punto di forza. Ecco perché, negli ultimi eventi della sua campagna, sta provando a collocare la propria figura e la propria missione nel solco di altri movimenti guidati da donne, o in quello tracciato da figure femminili che si sono fatte portatrici – e anche questo è uno slogan della sua campagna – di un “big structural change”, “un grande cambiamento strutturale”. Lo ha fatto anche a Washington Square Park, location che non a caso dista solo un isolato da dove sorgeva la Triangle Shirtwaist Factory, distrutta nel 1911 da un incendio causato dalle precarie condizioni in cui versava il laboratorio tessile. In quella tragedia hanno perso la vita 146 persone, per la gran parte donne immigrate.
Ricordando quell’episodio, Warren ha potuto citare la storia di Frances Perkins, donna coraggiosa che, dopo aver assistito alla tragedia, si è appassionata alla causa della giustizia sociale e ha spinto per l’implementazione di importanti riforme, fino a diventare Segretario per il Lavoro di Franklin Delano Roosevelt, nonché la prima donna membro del Gabinetto. “Quindi, che cosa è riuscita a fare una donna, una molto tenace, sostenuta da milioni di persone in tutto il Paese?”, ha chiesto Warren alla folla, riferendosi un po’ a Perkins e un po’ a se stessa.
Non solo. Prima del discorso, ad animare i suoi supporter risuonava il pezzo di Lizzo “Like a Girl”, il cui attacco non avrebbe potuto essere più azzeccato: “Woke up feelin’ like I just might run for president, even if there ain’t no precedent, switchin’ up the messagin’, I’m about to add a little estrogen”. E, al di là della retorica, il 64% delle persone stipendiate dalla campagna della candidata sono donne.
Essere donna, però, non basta. Lo ha fatto capire la senatrice nel suo discorso: serve anche essere “persistent”, tenaci, e avere dalla propria parte il sostegno di milioni di persone. Oltre, ovviamente, ad “avere un piano”. Tutti requisiti che Warren dichiara di possedere, e dimostrarlo è l’obiettivo principale della sua campagna. Resta da capire se sarà sufficiente a vincere la sfida, prima ancora delle presidenziali contro Donald Trump, delle affollate primarie democratiche, dove Warren deve vedersela principalmente con due titani: Bernie Sanders e Joe Biden.
Come già sottolineato, con Sanders la candidata del Massachusetts si contende lo stesso campo. Sarà allora importante conquistare i settori di elettorato dove il senatore rappresentante del Vermont, nel 2016, si era mostrato più debole: minoranze, donne di colore. La sfida non è scontata, anche perché, come già abbiamo avuto modo di rilevare su questo giornale, la nuova campagna del “socialista democratico” sta provando a porre rimedio a quelle lacune, ad esempio rendendo pubblico il passato di Sanders da attivista per i diritti civili che marciò a fianco di Martin Luther King. Il senatore, insomma, sembra determinato a fare più attenzione che in passato al tema della diversity. Non si conosce ancora l’esito di questa operazione, ma sondaggi recentemente condotti da CNN e Univision lo darebbero quasi al pari di Biden nelle intenzioni di voto degli ispanici, un po’ sotto all’ex Vicepresidente in quelle degli afroamericani adulti, ma molto sostenuto dai più giovani. Un altro sondaggio, poi, lo vedrebbe quasi alla pari con Kamala Harris tra le donne di colore.

Quanto alla sfida con l’altro titano, Biden, non c’è dubbio che le agende dei due rivali siano nettamente in contrapposizione: l’una, simbolo della lotta contro l’ingiustizia sociale e i privilegi delle grandi multinazionali; l’altra, decisamente più moderata e meno avvezza ai sogni di “big structural change”. La carta che l’ex Vice di Obama sta cercando di giocarsi – e ne ha dato prova nell’ultimo dibattito – è dimostrare che i grandi cambiamenti promessi dai progressisti sono inattuabili, anche per la mancanza di coperture economiche. È questo, in effetti, il terreno più scivoloso per Warren (e Sanders): come si realizzano progetti multimiliardari, che per di più si metterebbero contro enormi gruppi di interesse negli USA? È qui che la retorica del “I have a plan” diventa fondamentale per la senatrice. I suoi piani, compresa la proposta di imporre una tassa di 2 centesimi sulle fortune di 75mila ricchissimi (di cui alcuni, tra le altre cose, contestano la piena legalità), sono lì a dimostrare che non si tratta di proposte irrealizzabili, e che si può scommettere in grande senza rischiare di deludere le aspettative degli elettori. Sarà una strategia vincente?