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Emozionale non significa irrazionale: cosa imparare dai sentimenti anti-migrazione

L'antidoto alla dominante ondata di sentimenti anti-immigrazione sarà più giustizia, più equità, più protezione e più opportunità

Sergio SalvatorebySergio Salvatore
Emotional Does Not Mean Irrational. Learning from Anti-Migration Feelings

The Irish Navy rescues a boat of migrants. (flickr / Óglaigh na hÉireann)

Time: 6 mins read

Nel dibattito sulle politiche migratorie è facile imbattersi nell’idea che le posizioni anti-migrazione sono forme di reazione emotiva. Secondo questa visione, la crescita delle forze di estrema destra e populiste è il principale indicatore di tale dinamica affettiva. Come molti scienziati politici hanno evidenziato, le forze populiste devono il loro successo alla loro capacità di assecondare il bisogno delle persone di avere un nemico da considerare responsabile dell’attuale ingiusto stato di cose e contro cui scagliarsi, alimentando così la sensazione che si possa agire per rimettere le cose a posto.

Questa visione è spesso, più o meno implicitamente, un tutt’uno con l’idea che le reazioni emotive siano prive di basi realistiche, percezioni erronee che impediscono alle persone di vedere il reale stato delle cose. Che molte persone pensino all’immigrazione come ad una minaccia globale per l’identità, la sicurezza e il benessere della comunità è considerata una credenza distorta, ispirata dalla propaganda delle forze di estrema destra e populiste. Insomma, si scrive emozionale e si legge irrazionale.

Inutile dire che l’equazione emozionale=irrazionale non è completamente priva di giustificazione. L’opinione pubblica sembra presa da sentimenti viscerali, che alimentano atteggiamenti polarizzati, sempre più spesso espressi in forme violente. Come esempio paradigmatico di ciò, si consideri l’ondata di sentimenti anti-immigrazione che si sta diffondendo nella società italiana. Per molti Italiani, i migranti sembrano essere la minaccia più rilevante, molto più critica di questioni quali riscaldamento globale, proliferazione armamenti nucleari, consumo delle risorse naturali,  turbolenze finanziarie ed economiche. In qualche modo, sembra che per molti Italiani il destino del Paese dipenda dal numero di stranieri cui si riuscirà ad impedire di entrare nel paese.

Ora, vi è una quantità ampia e coerente di dati che evidenziano come simile percezione sia basata solo debolmente sui fatti – in realtà, per molti aspetti essa è in netto contrasto con la realtà. Solo per citare alcuni dati:

  • Nella prima metà del 2018, il numero totale di valichi di frontiera irregolari verso l’Ue si è quasi dimezzato rispetto ai circa 60.000 casi del periodo corrispondente dell’anno precedente.
  • Il numero di migranti arrivati in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale a giugno 2018 è sceso a circa 3.000, in calo dell’87% rispetto al giugno 2017.
  • Gli stranieri regolari in Italia sono poco più di 5 milioni, (600.000 gli irregolari), cioè l’8% circa della popolazione (60,5 milioni); di questi, circa 4 milioni sono gli stranieri non Europei (circa il 6,7%) – percentuali nettamente inferiori a quelle di molti paesi europei (Germania: 8,0; Grecia 8,1%; UK: 8,3%;  Francia e Spagna: 8,5%; Belgio: 8,7%; Olanda: 8,8%; Austria 9,9%; Svezia 11,6%).
  • Secondo un recente sondaggio, meno del 20% degli Italiani stimano correttamente la percentuale di stranieri nel nostro Paese (8%). Il 44% degli Italiani stima al doppio la percentuale di stranieri (15%); più di un terzo degli Italiani pensa che gli stranieri siano un terzo della popolazione, dunque circa 20 milioni


Per inciso, va sottolineato che l’onda emozionale non riguarda solo l’immigrazione: le società europee sono attraversate – anche se in misura diversa da paese a paese – da forme generalizzate di polarizzazione sociale e ideologica, come testimoniato dalla crescente incidenza di fenomeni di criminalità a sfondo raziale, radicalizzazione politica e religiosa, violenza anti-istituzionale. Per fare un altro esempio dall’Italia, nell’ultimo anno il numero di episodi di aggressione fisica ai danni del personale sanitario da parte di pazienti/parenti di pazienti è aumentato in modo rilevante, rendendo tale aspetto uno dei problemi critici più rilevanti per le istituzioni sanitarie (ad es. qualcuno ha proposto di dotare ogni ambulanza di una guardia armata).


Una diretta implicazione dell’equazione emozionale=irrazionale è che una volta connotata come reazione emotiva, la percezione/credenza delle persone è considerata rilevante per quanto riguarda i suoi effetti (ad esempio in termini di orientamento elettorale) ma priva di valore per quanto riguarda il suo contenuto. Anche in questo caso, la questione migrazione in Italia fornisce un esempio paradigmatico di questo approccio paternalistico (che caratterizza principalmente gli osservatori orientali e di sinistra). Molti di coloro che portano avanti posizioni pro-immigrazione trattano l’orientamento anti-immigrazione come una forma di razzismo e considerano ingenuo e/o barbaro chi è d’accordo con la politica anti-immigrazione dell’attuale governo.


Ora, ci sono ragioni rilevanti per individuare in questo atteggiamento paternalistico uno dei più efficaci fattori del successo politico della politica anti-immigrazione, e più in particolare, del suo interprete principale, il ministro dell’interno, Matteo Salvini – l’assoluto vincitore delle recenti elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna.

Matteo Salvini (pictured center) at an anniversary celebration for the League (Wikipedia / photo by Fabio Visconti)

Soprattutto, nonostante gli elementi che possono giustificarla, l’equazione emozionale=irrazionale è un’idea fuorviante. Infatti, come ben sanno sia il buon senso che la psicologia scientifica, la reazione emotiva non è sinonimo di cecità alla realtà: si reagisce emotivamente a una certa questione/stato di fatti, in quanto tale questione/stato di fatto destabilizza l’ordine dato per acquisito.

Ciò che molte persone hanno vissuto – e stanno vivendo – è per l’appunto una tale condizione di profonda incertezza e rottura, che rappresenta l’effetto collaterale che la globalizzazione sta avendo su ampi segmenti delle società occidentali – i cosiddetti “sconfitti” della globalizzazione. Rivendicare politiche inclusive non deve significare sottovalutare – peggio: dissimulare – i gravi costi sociali ed economici che le comunità ospitanti (e soprattutto i loro segmenti svantaggiati) devono sostenere come conseguenza della crescita dei flussi migratori – ad es. in termini di maggiore concorrenza nell’accesso alla protezione sociale, potenziali conflitti inter-etnici, dumping professionale e commerciale. Piuttosto, si dovrebbe riconoscere che questi processi sono i molto reali inneschi della reazione delle persone e che quindi tale reazione non si presta a venir dissolta con il semplice appello ad astratti principi universalistici e umanitari. Giusto per fare un esempio concreto, si consideri una famiglia italiana a basso reddito che, nell’assegnazione dell’alloggio si vede superata da una famiglia di migranti. Ora, chi è irrazionale: la famiglia italiana che reagisce a tale esclusione in termini di sfiducia, disperazione, rabbia contro le istituzioni, sensazione di essere stato espropriata di un diritto da un invasore straniero, o di chi pensa che questa reazione emotiva sia irrazionale, riflesso di mera ignoranza, inciviltà o peggio, di razzismo? Di nuovo, che cosa è irrazionale – aspettarsi di essere protetti dal proprio paese o credere che la frustrazione generata dal fallimento di questa aspettativa possa essere superata semplicemente chiedendo a coloro che l’hanno subito di aderire al principio universalistico astratto secondo il quale non esistono Italiani e stranieri, ma solo esseri umani che necessitano di alloggio?

D’altra parte, quanto sopra detto è solo un lato della medaglia. Riconoscere il fondamento delle reazioni emozionali anti-migrazione non significa affermare che tali reazioni vadano assecondate. Le istituzioni rispettano i sentimenti delle persone quando definiscono politiche mirate a elaborarli, non quando sfruttano tali sentimenti per ottenere facile – ma di corto respiro – consenso politico

La differenza, sottile ma sostanziale, tra elaborare e assecondare le emozioni collettive può essere meglio compresa se si tiene conto della natura delle emozioni – forme incarnate di conoscenza del mondo, cieche alle sfumature, alimentanti percezioni globali, onnicomprensivi della – dunque atteggiamenti verso la – esistenza. Ciò equivale a dire che le emozioni consentono di mobilitare le risorse psicosociali (ad esempio, motivazione personale, legami comunitari, senso di identità) utili per affrontare la dirompente l’incertezza della contemporaneità; tuttavia, esse lo fanno in termini di interpretazioni iper-semplificate (ad esempio l’idea che ogni problema sia dovuto a nemici esterni – e.g. i migranti, così come la burocrazia europea, l’Islam) e di azioni preconfezionate (cioè, azioni che soddisfano il bisogno di sfuggire alla sensazione di impotenza; ma al costo di rinunciare all’efficacia, il perseguimento della quale richiede ricerca paziente di strategie di medio termine adeguate alla complessità dei problemi).

In sintesi, coloro che vogliono promuovere politiche migratorie inclusive – e più in generale i valori della democrazia liberale forgiati nel tragico crogiolo della Seconda guerra mondiale – devono evitare l’errore di gettare il bambino insieme all’acqua sporca. I sentimenti delle persone sono segnali ricettivi molto realistici di ciò che significa la globalizzazione per segmenti progressivamente più ampi di società. Pertanto, il fatto che questi sentimenti inneschino interpretazioni e soluzioni che finiscono per peggiorare i problemi, non deve portare a misconoscere la profonda verità che essi rilevano, l’urgenza quindi di metterli al centro di qualsiasi progetto politico volto a rendere il mondo contemporaneo più umano, universale e giusto (e ancor prima, capace di sopravvivere a se stesso). Fuori dalla metafora, nel contesto contemporaneo globalizzato, politiche migratorie universaliste e inclusive, se attuate in modo coerente e serio, richiedono cambiamenti socio-economici e politici strategici – nella distribuzione delle risorse, nei modelli di welfare, nelle forme e nelle regole di cittadinanza, nella relazione tra identità comunitaria e regimi costituzionali. Non è possibile pensare di rendere le società europee più inclusive con i migranti ed al contempo lasciare che siano i nativi – e in particolare i più svantaggiati tra questi ultimi – a pagare il conto di tale generosità. Le persone disperate e impaurite non possono essere accoglienti. Se vogliamo rendere le nostre società più aperte agli stranieri, dobbiamo ridurre il divario tra i vincitori e gli sconfitti all’interno della nostra società.

L’antidoto alla travolgente ondata di emotività anti-immigrazione è più giustizia, più equità, più protezione, più opportunità, più controllo istituzionale sull’economia, più infrastrutture civiche e sociali, più partecipazione e democrazia all’interno dei nostri paesi. Forse, per richiamare i versi di una canzone che tutti conosciamo, si potrebbe pensare che ciò sia un sogno. Anche se fosse così, sarebbe comunque un sogno più realistico rispetto all’illusione di rivendicazioni pro-immigrazione disancorate da un progetto di promozione dei segmenti deboli delle società europee. Coltivare una tale illusione è il modo migliore per fare di Salvini, Le Pen, Orban & co. i nuovi eroi di quella parte di umanità messa ai margini dalla globalizzazione.

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Sergio Salvatore

Sergio Salvatore

Presidente dell’European Institute of Cultural Analysis for Policy (EICAP), Professore di psicologia, si interessa della relazione tra emozioni, pensiero e dinamiche politiche e sociali. Negli ultimi anni si è dedicato all’analisi delle profonde trasformazioni delle società europee e del loro impatto sulle decisioni politiche. Ripensare l’Europa intende contribuire alla discussione sul presente e il futuro dell’Europa, focalizzandosi sulle molteplici sfide istituzionali, culturali e sociali che il Vecchio Continente è chiamato ad affrontare (email: sergio.salvatore65@icloud.com) Presidente dell’ European Institute of Cultural Analysis for Policy (EICAP), Professore di psicologia, si interessa della relazione tra emozioni, pensiero e dinamiche politiche e sociali. Negli ultimi anni si è dedicato all’analisi delle profonde trasformazioni delle società europee e del loro impatto sulle decisioni politiche. Ripensare l’Europa intende contribuire alla discussione sul presente e il futuro dell’Europa, focalizzandosi sulle molteplici sfide istituzionali, culturali e sociali che il Vecchio Continente è chiamato ad affrontare (email: sergio.salvatore65@icloud.com)

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