Non è facile non condividere le parole sagge e pacate del Contrammiraglio Vittorio Alessandro, un vero uomo di mare e di relazioni. E’ stato perentorio, in un momento di gran confusione in Italia, su porti chiusi e aperti, quando ha precisato, nel corso di una trasmissione tv che “ non esistono porti chiusi. Per arrivare a questo risultato dovrebbero prima essere emessi degli specifici decreti, che ad oggi non ci sono, e che, aggiunge, dovranno essere ampiamente motivati. Le persone che arrivano via mare, che stiamo accogliendo, non sono delinquenti e non hanno commesso alcun reato. Semmai – ha detto Vittorio – lo avranno commesso gli altri, non i quarantasette che sono vittime ad esempio della vicenda di Siracusa. Saranno vittime dei trafficanti, vittime di chi si vuole, ma sicuramente non sono delle persone che hanno commesso un reato e sicuramente non mettono in pericolo la sicurezza pubblica”. Diciamo che è stato molto convincente in un’Italia già proiettata verso Sanremo e che al momento non pensa alla recessione tecnica, che pregusta la quota 100 e il reddito di cittadinanza e dove il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha detto che sarà un 2019 straordinario. Ma torniamo al Contrammiraglio che ha rilevato come l’Europa deve fare di più, e di questo siamo tutti convinti ma ha poi ricordato che : “il soccorso va fatto e va concluso portando a riva le persone, anche se una nave avesse commesso un reato.L’Italia ha una storia, un’etica: non si può in mare chiudere l’interruttore, dire non ti salvo o ti lascio in mare ad aspettare, usando le vittime del naufragio per risolvere problemi internazionali serissimi. Prima si portano a terra le vittime del nostro muro, altrimenti, saranno in fondo al mare”.
E onestamente non si poteva dire meglio questa verità. Narrarla meglio di come l’ha narrata il Contrammiraglio Vittorio Alessandro, nato a Porto Empedocle, terra di sbarchi, e che ne sa qualcosa di diritti e dovere in mare e oggi presiede il Parco Nazionale delle Cinque Terre. Uomo di comunicazione anche nel suo ruolo istituzionale ci è piaciuto riportare il suo pensiero per comprendere come questioni che sono molto chiare, vita o morte, spesso vengono narrate dai media e sui social, come può essere utile a chi le narra. Il linguaggio, le definizioni stesse che vengono utilizzate in riferimento a migrazione e globalizzazione evidenziano come vi sia spesso un approccio superficiale e fuorviante che rischia di generare conseguenze gravi sul piano del modello stesso di società e dunque di democrazia applicata. Spesso si fa riferimento al multiculturalismo come strumento per realizzare una società inclusiva e capace di accettare l’altro, il diverso
La globalizzazione ha dato vita a questa società liquida nella quale i punti di riferimento naturali sono perduti, assistiamo allo svilupparsi di una società fortemente individualista e, l’esplosione stessa di nuovi modelli relazionali come quelli che si stanno creando all’interno dei social network, ne è un esempio. Ma queste relazioni che nascono in un ambiente apparentemente senza confini e tendono a realizzarsi tra simili, che contributo possono fornire alla costruzione di una relazione con individui che giungono nel nostro paese da immigrati e spesso da clandestini?
L’avvento dei nuovi media e dell’affermarsi di nuove relazionalità porta ciò che caratterizza la contrapposizione tra “l’élite predominante” che vive nel mondo globale e quella parte che rimane ancorata ai propri luoghi e che anela unirsi a quell’élite. Una contrapposizione che si manifesta attraverso il mezzo più diffuso ancora oggi, la televisione.
La maggior parte degli spettatori televisivi sono dolorosamente consapevoli del fatto che è stato sbarrato loro l’ingresso alle feste planetarie «policulturali».
Viviamo nell’illusione di un’effimera condivisione, un’identità fragile, che allevia il senso di solitudine che la distanza tra noi e loro crea. In questo contesto si innestano gli altri, i migranti, che in qualche modo tentano di usurpare quella fragile identità, con i quali appare inverosimile dover condividere lo stesso sentire globale.
Siamo tutti diventati potenziali citizen reporters che, se solo dotati di uno smartphone, possono registrare e immediatamente inviare nelle reti globali qualsiasi illecito compiuto da chiunque, in qualsiasi luogo.
Il mondo dell’informazione esercita esso stesso un potere che può venire messo in discussione, verificato e controllato da ognuno di noi. L’analisi proposta evidenzia come le nuove tecnologie non abbiano di per sé modificato il modo di fare informazione sul fenomeno dell’immigrazione, così come non sono in quanto tali esse stesse fattore di cambiamento sociale. Lo diventano nella misura in cui ognuno di noi riesce ad assumere un ruolo attivo, espande il proprio universo relazionale innescando un processo di comunicazione che crea consapevolezza e ascolto, attivando quei comportamenti che originano una nuova cultura partecipata.
Ma questa rappresenta una visione prospettica, la realtà mostra ancora troppe luci ed ombre. Individualismo e sensazionalismo prevalgono su condivisione e ascolto.
Le urla del razzismo e del rifiuto sono la colonna sonora del nostro quotidiano. Il fenomeno non è governato, lavoriamo sull’emergenza e non sulla progettazione. Viviamo all’insegna della paura dell’altro e non dell’accettazione.
Se non comprendiamo la necessità del cambiamento, la società in rete costituirà isole invece di uno spazio comune. E soprattutto perderemo di vista il nostro grande obiettivo: rivendicare che l’Italia è una grande terra di solidarietà.