C’è un nuovo provvedimento di arresto per Cesare Battisti. In vista della sua estradizione dal Brasile. Lo ha disposto il giudice del Supremo Tribunal Federal, Luiz Fuz, ritenendo un “pericolo di fuga”. Battisti potrà ricorrere alla Corte Suprema che, però, non terrà sessioni fino al prossimo Febbraio. Sicchè, fino ad allora, probabilmente “l’estradando” rimarrà in Brasile.
Come si sa, in Italia, Battisti è stato giudicato colpevole di quattro omicidi, due di mano propria e due da mandante o complice, commessi e ideati tra il 1978 e il 1979, quale sodale di un gruppo terroristico.
Sappiamo anche che, a partire dal 2009, la sua posizione giuridica si è fatta più complessa di quanto la pregnanza del curriculum giudiziario lascerebbe intendere. Il Ministro della Giustizia del tempo, Tarso Genro, gli concedette asilo politico, e, un anno dopo, Lula negò l’estradizione.
Da quel momento, secondo una sequenza che qui non è il caso di riproporre, il destino di Cesare Battisti ha avuto un andamento sinuoso e contraddittorio, fino al provvedimento restrittivo di queste ore. Sul quale, come peraltro più volte rivendicato, ha inciso in termini determinanti il nuovo corso politico, concretatosi nella figura del neo Presidente Jair Bolsonaro: lo stesso provvedimento di arresto precisa che alla carica del Presidente spetta il potere di rivedere la decisione del suo predecessore e, quindi, di concedere l’estradizione prima negata.
Tuttavia, qui Bolsonaro non pare sia una persona, o un’istituzione che si possano comodamente isolare; perché rischia di risultare un paradigma invece fin troppo generale: e tanto più urticante, in quanto univoci e lampanti sono i suoi caratteri di caudillo carioca, voglioso di passarsi ogni sfizio tirannico a portata di mano. Che, però, sull’essenziale terreno delle libertà fondamentali, fa quello “che piace alle gente che piace”.
Estradizione o non estradizione, Lula o non Lula, un osservatore libero e non preoccupato di convenienze di sorta, dovrebbe fare i conti con due parole, e solo con quelle: poste al centro della prima decisone di Tarso Genro: Delador Premiado.
Con esse ci veniva detto che in Italia l’imputato Battisti non ebbe processi legali, perché le sue condanne hanno fatto perno sulle dichiarazioni di un “pentito” E’ vero? E’ falso? E’ vero. Le condanne riflettono, in misura determinante, le accuse di Pietro Mutti, compare di Battisti nel gruppo “rivoluzionario”. Non mancano certo dati probatori accessori che, come frequentemente accade nei processi fondati sulle chiamate di correo, valgono più ad imbellettare una cattiva coscienza investigativa che a rinvigorire l’ipotesi di colpevolezza. Anche per la condanna di Battisti, però, quello che conta è che essa non vi sarebbe stata senza le chiamate di correo compiute da Mutti.
In aiuto alla memoria, il Brasile, allora, ci aveva inoltre ricordato che in Italia, nella stagione dell’emergenza terroristica, fu varato un sistema “d’eccezione”: proprio fondato sulla figura del delatore, che negozia il suo personale armistizio mediante l’altrui libertà, inconciliabile con i principi del “Giusto Processo”, canone di rango internazionale, e fissato in tutte le Carte Fondamentali.
E, anzi, precisando che, in quegli anni, pure da noi vi furono contesti investigativi in cui lo stesso ambito dell’eccezione venne superato; vale a dire, in cui la già problematica genuinità degli accusatori fu resa ancor più precaria dal ricorso a pressioni fisiche e morali non coperte da alcuna norma di Legge.
Ora, per intendere fino a che punto i “salviniani” siano oggi “i comunisti”, e viceversa, basterà, per tutte, ricordare una copertina de L’Espresso, dell’Ottobre del 2017: secondo cui Battisti sarebbe “Il terrorista e assassino sempre protetto dai potenti”; e dove si scrive di “schiaffo all’Italia”, e che “i processi documentano”. Manca solo “radical chic” e, con un copia-incolla, sarebbero parole pronte per un tweet di Salvini.
Naturalmente, la difesa d’ufficio di Sua Maestà La Forca, da parte di quel cotè, non può stupire. Specie dove si possa risalire, per li rami, all’origine, alla reale “Fonte-del-Potere”. Non scherziamo.
Più significativa è semmai la “convergenza”. E siamo al punto centrale. Infatti, quelle due parole, “Delador Premiado”, ci interrogano non solo sull’origine storica di quei “sistemi d’eccezione”, ma soprattutto sulla loro evoluzione, sulla loro stabilizzazione, sull’assetto processuale, ordinamentale e sottoculturale che oggi ne costituisce la diretta filiazione.
Sulle battaglie di “supplenza democratica” che quel sistema ha potuto svolgere. Sulle abitudini, quasi sull’acquiescenza (a questo punto si può dire) che ha saputo determinare.
Il viscidume processuale verso cui il Brasile aveva allora pronunciato il suo vade retro, è lo stesso che è stato a lungo agitato intorno ai processi per le c.d. contiguità politico-mafiose: da Mannino, a Musotto, a Carnevale, a Contrada ad Andreotti. Lo stesso che ha alimentato una protesta di legale vessazione nei confronti del Generale Mario Mori; che ha attraversato le inquietudini sul fenomeno Ciancimino; sulle estenuate ipotesi di Trattativa; sulle ricerche perenni di origini statutariamente mafiose e stragiste di Berlusconi.
Lo stesso della “Rivoluzione Italiana”, con i “dossier miracolosi” di De Benedetti, Prodi e Romiti.
Lo stesso che nei prossimi giorni celebrerà il suo trionfo alla Camera con l’approvazione della cd Legge-Spazzacorrotti, dove il “pentito”, il “Delador Premiado”, sarà eretto al suo apogeo: “l’infiltrazione” che, nella inevitabile fluidità delle cose, finirà con lo sconfinare nella “provocazione”.
Sembra un punto d’arrivo davvero lugubre.
Perchè, data appena una grattatina alla superficie degli atteggiamenti giornalieri, la forca rischia di risultare l’anima nera, il vero simbolo della coscienza nazionale: e tanto peggio per il tricolore, e per i molti martiri che si sono immolati affinché fosse simbolo di libertà e civiltà.