Ultimo nel lungo elenco di intellettuali e politici che, di fronte alla presa del potere in diversi paesi da parte di partiti populisti e della destra, hanno sollevato la “questione democratica”, Walter Veltroni, dalle colonne di La Repubblica, ha lanciato il suo grido di dolore.
Il testo, rispettabilissimo, godibile, leggibile e specchiato come tutte le cose che Veltroni, letterato e cineasta oltre che politico, generosamente propone, può essere in larga parte condiviso da chi guarda con preoccupazione alla deriva che l’Europa rischia in questa fine di decennio. Peccato che non serva molto come contributo al “piano di fattibilità” che chi vuole fermare le macerie, si sta dannando a cercare.
Accade perché Veltroni, da buon ex comunista, scrive non potendo dire e dirsi tutte intere le verità di una vicenda, il suicidio della “sinistra” italiana, nella quale anche lui ha avuto un ruolo.
La prima verità è che in Italia non esiste la sinistra ma le sinistre: ed esistono da quando, al XVII congresso nazione del partito Socialista (Livorno, gennaio 1921) la corrente massimalista dei vari Bordiga Bombacci Gramsci Togliatti uscirono per dar vita al partito Comunista. Non ci si interrogherà mai abbastanza e mai si troverà la risposta ad un interrogativo impossibile, visto che la storia ragiona sull’accaduto e non sulle ipotesi: eppure è legittima la domanda su quale sarebbe stata la storia italiana senza quella scissione che, tra le altre cose, comportò decenni di fratricidio interno alla sinistra sino, secondo alcuni storici, alla partecipazione comunista all’eliminazione per via giudiziaria del partito Socialista Italiano nella stagione di “mani pulite”.
Visto che Veltroni evoca il fantasma della repubblica di Weimar, con pari metodo ci si chiede se la storia tedesca, quindi dell’Europa e del mondo, avrebbe assunto il tragico profilo degli anni trenta, laddove la socialdemocrazia di Friedrich Ebert non fosse stata assediata e spaccata non solo dalla destra dei Freikorps ma dai massimalismi comunisti, ad iniziare da quello di Rosa Luxemburg e Karl Liebkneckt. Il 1 marzo 1925, in morte di Ebert presidente in carica della repubblica di Weimar, l’Unità, organo di stampa del partito Comunista d’Italia, se ne uscì con un pezzo titolato La morte del social-traditore Ebert, che ad epitaffio così concludeva: “gli operai e i contadini d’Italia, di fronte al passaggio di questo feretro social-democratico, passano oltre. Senza scoprirsi. Perché il morto fu un boia del proletariato”.

La seconda verità è che le sinistre italiane non hanno il dono dell’autocritica né la vocazione al profondo esame della storia, per rintracciarvi lezioni sugli errori compiuti e quindi sui percorsi virtuosi futuri. È particolarmente vero per i comunisti, passati armi e bagagli, dopo il crollo sovietico nell’indistinto fronte dei progressisti, come se non avessero alle spalle 70 anni di storia e storie non tutte commendevoli. Nessun esame approfondito sulla tragedia rappresentata dal comunismo nella storia contemporanea, nessuna richiesta di perdono per aver sostenuto cause sbagliate contribuendo a tante tragedie politiche ed umane.
Ma più in generale è vera la supponenza delle nostre sinistre di avere sempre “ragione”, il che impedisce la celebrazione di Bad Godesberg di revisione e rifondazione. Anni di studio e quindi una conferenza che segni il recupero alla realtà, faccia punto e a capo, getti alle spalle il mal compiuto, generando il progetto del possibile verso il futuro, mai.
Veltroni, per dire, c’era in quella lunga stagione del suicidio delle sinistre italiane. Perché non prova a spiegarci cosa abbia allontanato i dirigenti dal popolo, la corruzione dagli onesti, i privilegi dalla gente comune? Se non capiamo perché si sia prodotto questa serie di “distacchi”, sarà difficile arrivare a sapere cosa occorra evitare per porre in essere quello che lui chiama il “sogno” della “nuova” sinistra.
La terza verità è che il “sogno” in politica, spesso si trasforma in incubo. E altrettanto dicasi per il “nuovo”. Sono parole vuote. Veltroni indica con chiarezza che abbiamo bisogno di ritrovare il “popolo” perduto. Quel “popolo”, lo scrive anche lui, ha bisogno certo di mantenere la libertà, ma vuole fortemente beni che chi ha rappresentato di recente la “sinistra”, Veltroni tra di loro, non ha dato l’impressione di volere o saper fornire: equità e meritocrazia, incorruttibilità, giustizia giusta ed efficiente, salari degni, fisco non bulimico, sicurezza cittadina, servizi, per un primo elenco. Sono beni molto concreti, che non hanno bisogno di alcun sogno per essere realizzati. Servono competenza, onestà, spirito di servizio, capacità di amministrazione, vicinanza alla gente.
La quarta e ultima verità qui di interesse è che, per ora almeno, la questione democrazia non è in gioco. Società e stato italiani stanno reggendo bene ai colpi che da taluni esponenti di governo vengono quotidianamente assestati. C’è fior fiore di galantuomini nel governo e nelle istituzioni, fedeli alla repubblica e alla costituzione, che vigilano e fanno il loro dovere. Per fine anno, con i documenti finanziari ed economici disponibili, si potrà capire meglio la politica economica del governo e chi deve, potrà trarre le conclusioni non da proclami o da prese di posizione di principio, ma dal concreto delle scelte effettuate.
Detto questo non piace ascoltare ogni giorno da parte dei due leader di governo che contano, attacchi e sciabolate contro l’avversario di turno, con l’Unione Europea sempre in testa all’elenco in quanto vero e assoluto “male” da svellere: non fa bene né all’azione del governo né al paese.
Né piace sentire uno dei due vice presidenti del Consiglio affermare, di fronte alle inchieste giudiziarie che lo riguardano, che “risponde agli italiani, che gli pagano lo stipendio a fine mese”. È più sensato che un ministro risponda alla costituzione e alle leggi: è sulla costituzione che ha giurato, non sul suo stipendio. E “gli italiani”, come tutte le generalizzazioni sono un’astrazione. A quali italiani si riferisce, signor vice presidente del Consiglio? Visto che cita il suo stipendio, solo a quelli che pagano le imposte e le tasse, par di capire. Guardi che siamo pochini, purtroppo per il ministro Tria che deve far quadrare i conti. Suvvia!
Se poi, riandando al ragionamento condotto da Veltroni nel suo pezzo, si vuole guardare alla cosiddetta sinistra, neppure piace che al funzionamento del sistema politico non contribuisca l’azione dell’opposizione, tuttora più interessata a guerre intestine. Non si fa opposizione dicendo che tutto ciò che un governo compie è sbagliato. È semplicemente impossibile che un governo sbagli tutto, così come è inverosimile che tutto indovini. L’opposizione deve essere propositiva, e alternativa, deve dare una visione strategica diversa da quella del governo e applicarla sui singoli provvedimenti. Questa opposizione non lo fa.
Eppure siamo in un momento storico nel quale in occidente emerge con sempre maggiore evidenza lo spartiacque tra schieramenti progressista e conservatore (talvolta reazionario), con la crescente difficoltà di identificare l’area centrista moderata, spinta dagli eventi dello scorso decennio ad allinearsi con le forze della destra, tradendo in molti paesi la sua ispirazione popolare. È come se la transizione politica avviata con la caduta del muro di Berlino, si stia approssimando al termine, e simbolicamente questo può essere fissato alle elezioni europee del prossimo maggio. La transizione significò, tra le altre cose, la difficoltà della sinistra a corrispondere alle esigenze dei tempi nuovi e della crisi. L’approssimarsi del suo punto d’arrivo chiede di attualizzare e ridefinire il concetto di sinistra, almeno per quanto riguarda l’Europa. Il pensiero socialista democratico e il pensiero liberale aperto a sinistra (si pensi alla Carta Atlantica e al piano Beveridge), devono, in simile frangente, trovare la capacità di aggregarsi e rifondarsi, dopo aver perso le offensive iniziate con i programmi dei governi fortemente conservatori di Margaret Thatcher (1979-1990) e Ronald Reagan (1980-1988).
Thatcher e Reagan mossero la tenaglia che recise il filo rosso delle storie riformatrici di pensiero e azione, generate nel brodo culturale della resistenza al nazi-fascismo, lanciate verso la costruzione della Federazione europea e la liberazione dei popoli dei continenti arretrati. Fu tenaglia potente, sotto la quale il progetto di società dei democratici popolari e dei democratici socialisti, forse anche perché cullato dai suoi successi, si mostrò incapace di opposizione.
Se il centro democristiano in diverse situazioni è riuscito a sopravvivere cedendo alla destra sulle tradizioni sociali e di liberazione individuale (si pensi al rapporto della larga pattuglia della destra democristiana con “Forza Italia” negli anni novanta, o a certe derive nazional-populiste che con il nuovo secolo si sono espresse in Francia in Ungheria in Polonia), la sinistra ha subito scacco su almeno tre dimensioni strategiche: il mercato (v. supply-side economics di Reagan), il sindacato (v. ridimensionamento delle Unions operato da Thatcher), la tassazione (v. misure di ridistribuzione della ricchezza a favore dei ceti abbienti).
Aver battuto lì in ritirata, o essere stati sostanzialmente acquiescenti alla tendenza vincente dei tempi, ha significato consegnare alla destra più conservatrice la leadership della nascente globalizzazione dell’economia e i contenuti che le democrazie postcomuniste avrebbero assunto nella prima fase di esistenza. Il che è stato reso possibile anche dalla contiguità strutturata che si è venuta ad affermare tra mondo della produzione e mondo della politica, attraverso la retrocessione dell’intervento pubblico nell’economia e le privatizzazioni, e la discesa esplicita della finanza nell’arena politica.
Dalla metà degli anni ’70 sino alla metà degli anni ’10 del nuovo secolo, agli aumenti di produttività delle imprese statunitensi non ha più fatto seguito l’aumento della retribuzione dei lavoratori: l’innovazione tecnologica, la liberalizzazione del commercio, la liberazione della finanza e la contestuale caduta di controlli hanno portato i frutti della crescita a concentrarsi in ristrette posizioni di vertice. Dai tempi di Reagan, il 90% degli americani situati nei punti inferiori della piramide sociale, non ha goduto alcun aumento di reddito. Negli attuali Stati Uniti l’1% della popolazione detiene il 43% della ricchezza nazionale. Va anche peggio sul piano globale, visto che alla fine del 2016 l’1% della popolazione mondiale detiene quasi il 55% della ricchezza e 8 individui l’equivalente di ciò che hanno per vivere i 3, 6 miliardi di persone più povere. Si è dimostrato fasullo l’assioma della destra, secondo il quale arricchire ulteriormente e senza limiti i già ricchi sarebbe stato un bene per i più poveri.
Per la sinistra si è trattato di una tragedia nella tragedia, avendo sempre ritenuto che fosse il fisco lo strumento per creare una minimo di solidarietà e redistribuzione in senso equitativo della ricchezza. Il fisco ha invece lavorato all’inverso. Nel frattempo lo stato ha smesso di essere regolatore dei conflitti sociali e dispensatore di una certa equità e fari play nel trattamento dei cittadini. I ceti medi come garanzia dell’ascensore sociale si sono indeboliti. L’apertura verso le altre nazioni e alla diplomazia multilaterale è sembrata penalizzare i meno abbienti.
La rivincita dell’estremismo conservatore parte, soprattutto nella versione thatcheriana, da due principi: all’interno si distruggano i corpi intermedi e le loro rappresentanze, all’esterno l’interesse nazionale prevalga su ogni altra considerazione. E’ il sedimento sul quale germoglieranno, nei decenni successivi, tutti i movimenti populisti, compreso quello italiano, essenzialmente nazionalismi della più bell’acqua, che si accompagnano all’inevitabile ingresso dei grandi interessi economici e finanziari nella stanza del potere politico.
Le tecnologie informatiche hanno fornito l’efficace strumento per la realizzabilità dell’obiettivo con l’esaltazione di falsi miti, dinformacja, diffusione di notizie fasulle, svalutazione dei patrimoni culturali della sinistra democratica (si pensi a cosa ne è stato dell’antifascismo e della resistenza) e dei suoi valori (la solidarietà, ad esempio, l’equità e la giustizia sociale), spingendo al dialogo diretto con elettori e consumatori, senza alcun filtro dei corpi intermedi classici. Nel falso mito dell’orizzontalità della comunicazione (irrealistica e impossibile perché nella comunicazione tra forte e debole non può esserci orizzontalità ma solo verticalità a imbuto) la destra nazionalista ha proposto, spesso con successo formule politiche che di fatto hanno marginalizzato la sinistra.
Cosa può e deve essere la sinistra e cosa deve fare
Uno dei beni irrinunciabili dei nostri tempi è che la contesa politica avviene, nella gran parte dei paesi, per via pacifica attraverso il voto. La sinistra democratica e liberale che punti a governare per modificare le situazioni di ingiustizia e irrazionalità generate nei decenni del trionfo della destra, dovrà innanzitutto ottenere i voti degli elettori. Non le mancano ottime ragioni per motivare il consenso, che tuttavia arriverà solo a certe condizioni.
La prima è la coerenza delle azioni rispetto alle enunciazioni. Se si professa l’equità fiscale occorrerà identificare modalità di imposizione diretta e indiretta in linea con detto principio. Se si dichiara che il lavoro è il bene prioritario da difendere e garantire, non si possono assumere misure che lo penalizzino. L’esame del voto, in particolare negli Stati Uniti in Francia e Italia, ha mostrato come la destra, anche quella estrema, abbia pescato consensi in distretti tradizionalmente operai e di sinistra. E’ accaduto perché quei ceti di lavoratori non si sono sentiti protetti dalle politiche economiche che Obama negli Stati Uniti, Hollande in Francia, Renzi in Italia, esponenti di sinistra rispetto ai successori, hanno praticato.
La seconda condizione è la restituzione alle democrazie della dimensione sociale, in una società che non dispone più dei grandi centri industriali né delle grandi masse di bracciantato contadino, che è atomizzata, polverizzata in lavori e professioni sempre più individualizzate dall’uso di tecnologie che aggregano gli esseri umani attraverso bit e reti virtuali. Diversi partiti populisti e di destra stanno provando a farlo. Il welfare, storicamente, lo hanno realizzato anche forze di destra: chiedere in passato a Bismarck e Hitler, e oggi ad Orbán.
E qui la terza condizione. Una sinistra estranea o poco versata sul lato delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict), del big data, dell’avanzante società robotica, del fare rete attraverso l’uso dei cosiddetti social media, non sarà mai chiamata a riprendere il potere, e quindi fare le riforme delle quali si ha assoluto bisogno. Dal basso sta nascendo una società altra, che ragiona e opera in modo altro in quanto nasce si istruisce e cresce dentro Ict, social e virtualità. La sinistra contemporanea, anche per questa ragione, ha bisogno di giovani, di svecchiarsi, di cedere il passo a chi ragiona nel modo che questa impalcatura, fatta non solo di tecnica ma anche di contenuti altri dal tradizionale, pretende.
La società in arrivo con la presente ondata tecnologica, obbligherà a smetterla di pendolare tra due cose inutili e dannose per la retta conduzione del governo, che zavorrano un secolo e mezzo di sinistra: l’ideologia (immobile, fossilizzata, quindi incapace di risposte ai problemi nuovi) e l’utopia (troppo lontana, troppo perfetta e irraggiungibile per gli umani governanti), spingendo la sinistra a rendere realista il suo idealismo pur mantenendo assolutamente etica la sua azione politica.
Occorrerebbe un neologismo per descrivere ciò che serve: ideopia forse, sorta di sapiente mescolanza di idealismo utopico e realismo pragmatico.
Un caso di scuola per ideopia può divenire il retto e intelligente trattamento che la sinistra europea, se vuole sopravvivere, è chiamata a fornire alla questione dei migranti economici e dei richiedenti asilo. Macron ha detto sì all’accoglienza immediata per chi scappa da guerre e repressioni politiche, niente corsia preferenziale ma procedure consuetudinarie per gli immigrati economici. E’ posizione che parte dalla questione identitaria, da cosa è una comunità nazionale, e il suo patto costitutivo. E che si interroga su come possano nuovi venuti essere ammessi a parteciparvi.
Molte sinistre europee e statunitensi, certamente quella italiana, sembrano preoccuparsi più della propria identità che di quella della comunità nazionale ed europea alla quale appartengono e soprattutto alla quale chiedono il voto per andare o restare al potere. Può essere un grave errore, perché l’elettorato, in questo caso, percepirà ancora più del solito la sinistra come autoreferente e poco interessata al destino della comunità. Occorrerà, semmai, chiedersi come l’identità della sinistra possa combaciare con quella della comunità nazionale ed europea: e in questo sforzo occorrerà cedere quote identitarie, come sempre capita nella fatica di inclusione e compromesso. Non è certo con i “sacri principi” che si risponde alle domande che la gente rivolge alla politica, ma chiedendosi quali sono i suoi effettivi bisogni e come vadano serviti e accompagnati.
Se un lavoratore ha risparmiato per decenni, per acquistare un minuscolo appartamento periferico, e questo si svaluta perché nel condominio dov’è collocato si dà accoglienza a immigrati, lui ha delle sacrosante rivendicazioni da rivolgere al leader di sinistra che magari abita in quartieri del centro storico dove gli immigrati non vengono accolti. A comunità che vivono di turismo, ad albergatori che con investimenti e lavoro hanno attratto ospiti, non si può ideologicamente imporre di accogliere disperati che di fatto metteranno in fuga i turisti distruggendo fonti di reddito e anni di lavoro. Se le risorse scarse di stato e regioni, sottratte alla sanità pubblica, sono impiegate per dare sanità allo sconosciuto che viene ricercato e raccolto in mare, chi ritiene di veder diminuita la sua capacità di cittadino di fruire del servizio sanitario nazionale, si sentirà in diritto di reagire, e lo farà alla prima occasione di voto. Ideopia chiede: cosa ci guadagna la sinistra e il paese a consegnare l’elettorato ad una destra che promette di assumere drastiche misure contro gli immigrati? Non è più sensato “governare” e regolare il fenomeno ascoltando i cittadini elettori e i loro bisogni?
È la quarta condizione: tornare tra la gente, uscire dai palazzi, chiudere la bocca dei proclami e aprire le orecchie nell’ascolto. Nella società meccatronica e robotica prossima ventura, sono attesi ancora più disoccupati e marginali: il riformismo dovrà guardare in faccia il mondo dei bisogni veri ed effettivi, non trastullarsi a frantumarsi e dividersi su basi ideologiche o, peggio, personalistiche. E’ questo il solo approccio che potrà consentire alla sinistra, in particolare al riformismo socialista, di non finire nella trappola del nazional-populismo di sinistra, dove sono caduti stabilmente i movimenti del caudillismo izquierdista latinoamericano (da ultimo in Venezuela Chavez e Maduro), e dove rischiano di ritrovarsi leader, come Bernie Sanders negli Stati Uniti e Jeremy Corbyn nel Regno Unito, nel complesso scenario di contrasto agli avversari nazionalisti e populisti.
Le prossime elezioni europee del 2019 andrebbero preparate con una sorta di Bad Godesberg o stati generali della sinistra, per i quali però non si vedono né le condizioni né il leader. Resta l’esigenza che quelle elezioni siano il luogo dove il populismo nazionalista non stravinca, osando senza timidezza il progetto di riorganizzazione del sociale e dell’economico in chiave di riformismo socialista aperto ad ogni forza progressista.
Qui si inserisce la quinta e ultima condizione. In questa nostra contemporaneità, occorre accettare che l’elettore non percepisca più la realtà, le proposte, i programmi elettorali, i comportamenti di chi gli chiede il voto, come di sinistra destra o centro, ma come proposte programmi etc. che lui percepisce a sinistra destra o centro del suo punto di osservazione. Se la persona, quindi il punto di osservazione, si sposta (cosa che capita oggi in modo endemico), ciò che continua a trovarsi nello stesso punto verrà in realtà percepito dall’osservatore-elettore in altro punto. Accade, nel suddetto processo, che un movimento politico si ritrovi sbalzato da una posizione all’altra, solo perché non ha tenuto conto di quanto il “suo” elettorato si sia spostato, in base ai “suoi” valori interessi e bisogni del momento.