Naturalmente, le iniziative di Luigi Di Maio e Matteo Salvini, intorno alla formazione del prossimo governo, non sono rilevanti in sé; perché non sono autonome, né libere. Lo ha ricordato, larvatamente, ma non troppo, il Direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Il quale ha ieri rammentato, nel corso di Otto e ½, che l’ultima parola non spetta a loro; e nemmeno al Presidente della Repubblica.
Apparentemente, criticava la vischiosità di un’alleanza, fra FI e Lega, che si scinde al governo e si mantiene fuori. E’ stato altrove osservato che è già accaduto in passato (con il Governo Monti, sostenuto, al contrario di oggi, da FI e non dalla Lega). Sicché, se il rilievo fosse stato realmente di carattere politico, avrebbe potuto soffermarsi su questo tema: sì, in un caso, no, in un altro; perché, come, e così via.
Cosa che non ha fatto. Eloquenti (si dice, per dire) le parole scelte, riferite a Berlusconi: “delinquente naturale, pregiudicato ineleggibile, interdetto e amico dei mafiosi”.
Superfluo qui ripercorrere la vicende evocate: “pregiudicato ineleggibile, interdetto”, ci riportano ai magistrati Esposito, padre e figlio, alle interviste garrule, alla mondanità togata ed interferente; “delinquente naturale”, ad una sgrammaticatura giuridica: poichè “il delinquente naturale” è una qualificazione inesistente, abusivamente consegnata da una sentenza al suo stesso (della sentenza) pubblico disdoro.
Quanto ad “amico dei mafiosi”, l’immagine implica sia una deliberata manomissione di plurimi accertamenti giurisdizionali definitivi, secondo i quali Berlusconi è stato sottoposto ad estorsione: rimanendo tutt’ora dubbio il ruolo assunto dall’ex Senatore Dell’Utri (pende un ricorso alla CEDU, sul punto); sia la deliberata invenzione di una motivazione inesistente: giacchè la recente sentenza della Corte di Assise di Palermo sulla cd. Trattativa, oltre che essere ancora ferma alla soglia del dispositivo di primo grado, ha comunque concluso un processo in cui Berlusconi non è stato mai imputato; e, pertanto, se argomenti sul punto dell “amico dei mafiosi” si volessero trarre, onestà intellettuale, anche morale, vorrebbero che si lasci dire alla Corte, quando e se in proposito avesse da dire.
Non dimenticando, tuttavia, che, sul “patto politico-mafioso”, esiste già una sentenza definitiva (Corte di Appello, di Palermo, 29 Giugno 2010, pag. 544, che ha, peraltro, condannato Dell’Utri per “l’intermediazione”), la quale, sulla base degli stessi elementi di prova poi riproposti nel ridetto Processo-Trattativa, ha così stabilito: “Tutte le superiori considerazioni inducono pertanto a ritenere che non e’ stata acquisita prova certa, nè concretamente apprezzabile, del preteso accordo politico-mafioso stipulato tra cosa nostra e l’odierno imputato” (che, era, si ripete, Dell’Utri)
Queste sono acquisizioni certe. Di cui si può sciorinare una inesistente univocità stigmatizzante, solo perchè si è sicuri di poter disprezzare atti ed istituzioni della morente Repubblica.
Travaglio, infatti, ha aggiunto che il paradigma reale per giudicare il prossimo cd Governo, sarà la prontezza con la quale si interverrà sulle misure anticorruzione, sul conflitto di interessi, nonchè sulla Commissione Antimafia e sul Comitato parlamentare sui Servizi.
La materia ”corruzione”, è già in corso di tendenziale parificazione normativa al delinquere “di tipo mafioso”; le Misure di Prevenzione “estese” e l’ “agente provocatore”, sono gli strumenti d’avanguardia (uno già operante, l’altro in marcia) di questo primo campo d’intervento; entrambi sono essenzialmente dominati dalle indagini preliminari, che ne sono il “fondamento conoscitivo”. Cioè, dal Pubblico Ministero. Il Processo Penale, dopo oltre vent’anni di abuso intensivo, pare abbia già dato, sotto il profilo “demolitivo”; e ora giace quale oggetto di dotta quanto alienata convegnistica (la categoria “imputato”, in astratto mai disconosciuta, non è misurata dalla categoria “uomo”, che invece si può concretamente annichilire; sicchè, le carte sono sempre “a posto”. E non solo per i magistrati).
Sia la Commissione Antimafia che il Comitato sui Servizi, sono “di garanzia” solo se, pur riproponendo la rappresentanza parlamentare (cd principio paritetico), al di là delle formali appartenenze, presentino un chiaro segno politico di controllo, nei confronti del Governo e della maggioranza che lo sostiene. Altrimenti, se tendono ad affiancarsi a “chi ha vinto”, si risolvono in un potenziale (e ulteriore) strumento di persecuzione politica.
Una qualche nuova legge sul conflitto di interessi (in sè, sempre plausibile), con Berlusconi “interdetto e ineleggibile”, mostra con chiarezza palmare la sua effettiva pretestuosità.
Ora, ci sono solo due alternative; la prima, è che Salvini si mostri insofferente alla stretta del collare. Senonchè, se fosse, uno più uno, due, e si troverebbe ad essere tacciato come “amico dell’amico dei mafiosi”. Si può, perciò, ritenere probabile, l’alternativa opposta: che il collare funzioni (Di Maio non è per il momento fonte di fastidi).
Sì, certo, c’è l’Euro, Putin, il reddito di cittadinanza, le tasse: tutte materie che sarebbero centrali, e sulle quali, anzi, si dovrebbe esaurire la vicenda e il discorso politico. Ma prima del “Cosa”, conta il “Chi”; e, d’altra parte, il “Chi” decide largamente del “Cosa”, ovviamente.
Una simile concentrazione di poteri coercitivi, tutti potenzialmente esperibili in un’unica direzione, si occupa proprio del “Chi”: l’opposizione parlamentare e politica e, s’intende, casa per casa, famiglia per famiglia, quanti la esprimono.
Si potrebbe pensare a quelle parole di Travaglio come ad un cedimento atrabiliare. Ma l’interesse e la necessità erano e sono, invece, quelle di ribadire la natura catilinaria, torbida e liquidatoria del potere di cui è riconosciuto e apprezzato Vate (non traggano in inganno apparenti, e comunque rare, tirate d’orecchi risarcitorie; poi, in appello, “tutto s’aggiusta”).
Questi sono i caratteri di una pericolosissima Tirannia.