Per chi guarda dall’Italia alla vicenda di Luiz Inàcio Lula da Silva, l’ex Presidente del Brasile appena recluso, ci sarebbe una sola frase da pronunciare: “E’ ingiusto”. Tuttavia, così, sarebbe frase monca, ambigua. Mancherebbe il “perché”. Allora, bisognerebbe avere il coraggio, o almeno la volontà, di aggiungere: “A prescindere”.
Lula è stato condannato a dodici anni di reclusione, per corruzione e riciclaggio; avrebbe accettato un appartamento, un trilocale, da un’impresa privata, la OAS, “in cambio” di alcuni contratti con Petrobas, l’azienda petrolifera di stato. Il suo ingresso in carcere è avvenuto nonostante la sentenza non sia definitiva (deve essere ancora deciso il ricorso innanzi il Tribunale Federale, la suprema istanza giudiziaria in Brasile).
Ma è difficile che in Italia si voglia pronunciare per intero quella frase: “E’ ingiusto, a prescindere”. Troppe implicazioni ne seguirebbero, troppe memorie, troppe miserie. Allora si preferisce dare spazio a commenti laterali, che scantonano dalla centralità della questione; e suonano irrazionali, emotivi. La condanna è ingiusta perché Lula era socialista, e perchè la sua azione politica fu volta a “ridurre le disuguaglianze”. E che c’entra?

E se fosse stato liberale, allora sarebbe stato giusto setacciare, atto per atto, per anni e anni, la vita sua e dei suoi familiari, alla ricerca di un appiglio legalistico, di un inciampo nel sospetto, stringerlo fra provvedimenti assunti tenendo le manette in un una mano, e il calendario elettorale in un’altra? Sarebbe stato giusto, allora? No. Perciò, invocare la “superiorità socialista” è un argomento che svicola dalla questione.
L’ingiustizia di questa condanna, caduta su un uomo politico che ha governato 200 milioni di uomini e donne, per mandato democratico largo e libero, risiede nell’avere consentito la legittimità di una restaurazione. Quale? Non quella in danno del “compagno Lula e dei lavoratori del Brasile”. Questa è la superficie contingente. La sopraffazione risiede nel “mezzo”; che proprio per questa sua natura soverchiante, può essere volto in qualsiasi direzione, contro chiunque: socialista o non socialista che sia.
Esso si legittima grazie ad un’impostura: “il primato della Legge”. Ed è un’impostura “di sistema”. “Legge” è quella consegnata alle Gazzette Ufficiali. Ma, prima e dopo, Legge è, soprattutto, cura degli interessi, secondo un’azione di governo democraticamente determinata. Chiamiamola “Legge in azione”.
Il conflitto è fra “primato” di chi maneggia la “legge della Gazzetta”, vale a dire, l’Autorità Giudiziaria; e primato della Legge mentre vive e si anima e si innerva e si nutre degli interessi immediati e riconoscibili del cd “Popolo Sovrano”.
Facciamo attenzione. Giacché sempre accade che, a questo punto, all’impostura principale, se ne aggiunga una accessoria, ma non meno essenziale. Si afferma: se si svilisce la “legge della Gazzetta”, e si esalta la “Legge in azione”, il governante si sottrae ad ogni controllo.
Per uscire da questa apparente impasse, dobbiamo tornare al nostro “a prescindere”. L’inganno consiste nella pretesa assolutezza del “controllo di legalità”. Quando la “legge della Gazzetta” si pone come assoluta, sbocciano due menzogne in una. Da un lato, la norma giuridica si fa dogma: affidato alla tetragona custodia di un Sacerdote, che attinge un sacro ed imperscrutabile volere; siamo agli antipodi del confronto dialettico, o anche solo dialogico. Dall’altro, e proprio per questo mutamento nella natura della legge, da umana a superumana, o, più frequentemente, da democraticamente ad oligarchicamente orientata, il giudice-sacerdote, proprio mentre invoca il controllo sugli altri, nega, di fatto, ma efficacemente, quello su sé stesso.
Lula per oltre un decennio ha avuto l’ultima parola sulla gestione di centinaia di milioni di dollari. E qui, così assidue ricerche, avrebbero trovato un trilocale. “A prescindere” significa allora dire che ne aveva tutto il diritto; secondo un giudizio di mediazione ragionevole fra “legge della Gazzetta”, e “Legge in azione”, fra interessi di pochi, e interessi di molti, fra pienezza democratica e obliquità oligarchica.
La necessità che il Pubblico Ministero possa rispondere del mancato assolvimento di questo decisivo onere, di questo suo primo dovere, la “mediazione ragionevole” fa “legge della Gazzetta” e “Legge in azione”, lo consegna ad un’arbitraria irresponsabilità: che sovverte la stessa possibilità di un ordinamento democraticamente costituito. In una società non sovvertita, come invece pure quella brasiliana è, il dott. Sergio Moro, e da tempo, non dovrebbe essere più un magistrato: avrebbe dovuto lui essere chiamato a rispondere di questa sua omissione fondamentale. E messo alla porta.
E poco importa se la sua azione sia stata anche favorita da un sistema istituzionale, che affianca al Presidente eletto direttamente un Parlamento, invece eletto in modo proporzionale; con la conseguente formazione di partiti, che possono aver giocato di sponda e ostruito. Questa è ancora dinamica libera e parlamentare: magari non ottimale, ma legittima. Alla fine della fiera, hanno deciso le manette. E le manette si decidono fuori del Parlamento. Punto.
Vi pare un caso che il magistrato Sergio Moro, titolare dei processi contro Lula, si consideri un allievo spirituale dei dott.ri Davigo e Di Pietro?
La restaurazione, pertanto, riguarda la libertà politica di ciascuno in quanto tale: non l’estrazione dell’idea intorno a cui quella libertà si esercita. Non vede Karl Marx contro Adam Smith, o viceversa; ma il ritorno di Luigi XIV contro il “cittadino”.
In Italia come in Brasile, a partire da Mani Pulite, abbiamo imboccato la via di un regresso misurabile sulla scala delle ere storiche e politiche. E i re assoluti, come pure i più moderni dittatori novecenteschi, proprio mentre più le disprezzavano, ebbero sia plebi sciamanti ed esultanti, che burocrazie servili, e addobbate con le insegne della Real Casa o di parlamenti cadaverici.
Le une e le altre, magari, convinte di contare qualcosa.