Salvatore Caputo, detto Salvino, avvocato e uomo politico, già deputato all’ARS, oggi dirigente della Lega, dopo aver prima militato in Alleanza nazionale, è stato sottoposto a custodia cautelare nel domicilio, su richiesta della Procura di Termini Imerese, perché accusato, insieme al fratello e ad altri, di “voto di scambio”. Scambio “semplice”, senza mafia, altrimenti, avrebbe proceduto Palermo.
Qualche anno fa, era stato condannato per tentato abuso di ufficio, avendo cercato di fare annullare alcune ammende inflitte dalla Polizia Municipale di Monreale, di cui era sindaco. A norma della legge Severino, nel 2013 è stato dichiarato decaduto dalla carica di deputato regionale.
Nel caso presente, in particolare, per sollecitare voti in favore del partito di Salvini, avrebbe “promesso posti di lavoro”. L’accusa, con la sua cadenza epigrafica, implica una riprovazione che si vorrebbe ovvia. Eppure, qualcosa vela una disarmonia, nello spartito del consueto, dell’approvato, del giusto. Cosa? La stessa sequenza: uomo politico, elezioni, lavoro, che si vorrebbe logica, e che pare invece tradire una filigrana illogica.

Si apprende che si indaga per “dodici episodi di compravendita di voti”. La pretesa specificità dell’oggetto, vorrebbe prevenire la più urticante delle obiezioni. Questa: ma se, in vista di un voto democratico, non campeggia l’idea del lavoro, in uno spazio sociale e politico a bassa occupazione, e nelle fasce di età giovanissime e giovani, bassissima, esattamente, perché votare?
L’obiezione all’obiezione allude alla promessa di un abuso: non, genericamente, lavoro; ma “quel” lavoro, grazie ad uno studiato governo di processi decisionali, in ambito pubblico o privato, da cui sortirebbe l’effetto sperato. Ecco, allora, che non il metodo elettivo sarebbe sottoposto ad indagine, ma la sua distorsione, il suo travisamento. Se questo fosse l’argomento a difesa dell’accusa, non cambierebbe nulla; anzi, sarebbe persino peggio.
Infatti, questo, dello “scambio”, è il nucleo essenziale dello svolgimento democratico; e distinguere la “promessa” penalmente rilevante, dalla “promessa” politicamente essenziale, è impossibile. Perché, semplicemente, è sbagliata la scelta di incriminare “la promessa” in quanto tale. Un conto è “pagare” un voto con alcunché di tangibile: come il denaro o un controvalore equivalente certo; altro è “ricavare” la concretezza, la materialità dello scambio”, da una congettura. L’abuso è supposto, ma inesistente.

Se poi abuso ci fosse, lo si dovrebbe censurare solo se in sé censurabile: per esempio, in quanto un concorso è stato alterato, o un’assegnazione nominativa è stata compiuta violando i requisiti richiesti. Ma colpire il sogno di un fantasma, significa pensare in termini, letteralmente, persecutori.
Tuttavia, la congettura persecutoria è già nella Legge: come risultato di un movimento sottoculturale dichiaratamente ostile alla mediazione democratica, e alla sua necessaria “grammatica”. E, sia chiaro, gli ultimi arrivati su questo terreno sono, appunto, ultimi arrivati.
Certo, ora dovranno rendersi conto in fretta che sono comparse su un proscenio ineffettivo; ma forse, prevarrà la logica del topo; si salta dalla nave che affonda (la reale esperibilità del voto, cioè, della democrazia) e, di volta in volta, si vede. Ognuno per sé, e una qualche Procura per tutti. E’, di fatto, regola accettata, residui vaniloqui a parte, ormai pressocché pacificamente: come certe corna.
Il servilismo spirituale e concettuale della classe politica elettiva verso i poteri non elettivi, magistratura in primo luogo, ma anche agenzie di “auditing istituzionale” è stato, ed è, trasversale. L’idea-base è che l’espressione democratica sia sempre pericolosa e insana e che, pertanto, debba essere sottoposta a tutela.
Lo sappiamo a memoria. Per oggi, pertanto, può bastare.

Ora estendiamo fugacemente lo sguardo al “futuro”. Oggi cominciano le consultazioni. C’è un’aria paludosa; passi claudicanti e guardinghi, anziché marce trionfali. Parleranno, ascolteranno, ascolteremo. Ma, proprio questa rarefazione delle volontà, dato alla tribuna il suo, in realtà costituisce il segno di un passaggio avvenuto. Non è vero che nulla è accaduto. Non ci si riferisce alla “vera novità” dei nomi, delle sigle.
L’impressione generale è che il reale “nuovo corso” sia altro: una conquista è stata condotta a termine. Alcuni sovrastano, molti soggiacciono. Le nuove classi dirigenti politiche sono nate e cresciute grazie ad un unico, fondamentale fattore di legittimazione: il “legalismo”. Non la Legge, nè quello che si definisce “controllo di legalità”, che riguardano il concreto e l’attuale, delle persone o dei comportamenti.
Si tratta invece di un’idea, costruita con una sequela incessante di “effetti-annuncio”: l’indiscrezione-che-brucia, l’indagine-che-condanna, l’assoluzione-che-non-assolve, diffusa quanto indefinita, da cui però dipende e dipenderà la “spendibilità politica”, “l’immagine”, la “percezione” della loro azione politica. Sequela che riguarda la “politica” in quanto “fenomeno”, la “politica” in quanto “classe”, la “classe politica” in quanto “casta”. Tutti caratteri effimeri nella definizione, ma irrevocabili negli effetti, la cui unilaterale esistenza dipende da quel fattore di legittimazione.
Questi “uomini nuovi” sono entrati nel Palazzo, ma non come inquilini, e nemmeno come custodi. Le chiavi che hanno aperto il portone le tengono altri: altri Poteri. Sono entrati come personale di servizio, per non ricorrere a più impietosi sostantivi. Questo hanno voluto. L’avranno.
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