A Cipro si sono appena concluse le elezioni, in Spagna si sta discutendo (di nuovo) sulla possibile candidatura del leader catalano in vista delle prossime regionali e in Italia…beh in Italia ormai non si parla d’altro se non delle prossime politiche del 4 Marzo. Tutti paesi democratici. Almeno secondo le rispettive Costituzioni.
Oggi, gestire un paese mediante forme di democrazia “diretta” è quasi impossibile. Nella maggior parte dei paesi “democratici”, vige la democrazia “rappresentativa”, quella che prevede che i cittadini decidano con regolari elezioni i propri rappresentati per gestire e governare la cosa comune. Ma a prescindere che sia rappresentativa o diretta, davvero in tutti questi paesi vige la democrazia? È la domanda che si pongono da anni i ricercatori dell’Economist Intelligence Unit. Dal 2006 un gruppo di studiosi cerca di analizzare quanto “democraticamente” sono governati la maggior parte dei paesi del globo.
La Democracy viene misurata ricorrendo a cinque categorie generali: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzione del governo, partecipazione politica e partecipazione culturale. Il punteggio attribuito ai paesi viene calcolato facendo la media ponderata delle risposte a 60 domande (a risposta multipla, con due o tre alternative). Alcune di queste risposte vengono “valutate da esperti”, altre mediante sondaggi nei rispettivi paesi, altre ancora, “nel caso di paesi per i quali manchi un sondaggio, questo viene ricavato da paesi simili e la valutazione degli esperti viene usata per chiarire i punti oscuri”. I risultati vengono poi “ponderati” in base ad alcuni parametri e il punteggio finale serve a classificare i paesi in quattro gruppi: Democrazie complete (punteggio di 8-10: dove le libertà civili e politiche di base non solo sono rispettate, ma anche rinforzate da una cultura politica che contribuisce alla prosperità dei principi democratici; Democrazie imperfette (punteggio da 6 a 7.99: dove le elezioni sono libere e le libertà civili di base sono rispettate, ma dove esistono significative falle in altri aspetti democratici, inclusi una cultura politica sottosviluppata, bassi livelli di partecipazione nella vita politica, e problemi nel funzionamento del governo); Regimi ibridi (punteggio da 4 a 5.99: qui le irregolarità nelle elezioni sono comuni e i governi esercitano pressioni sull’opposizione, inoltre spesso la magistratura non è indipendente e la corruzione è estesa); Regimi autoritari (punteggio inferiore a 4: sono paesi dove il pluralismo politico è estremamente limitato, si tratta quasi sempre di vere e proprie dittature, a volte magari camuffate da democrazie ma dove le violazioni e gli abusi sulle libertà civili sono costanti, le elezioni non sono libere e i media sono spesso controllati dal potere).

Nei giorni scorsi, sono stati presentati gli ultimi risultati dell’Economist Intelligence Unit’s Democracy Index nel quale sono stati studiati 167 paesi. “L’indice della democrazia fornisce un’istantanea dello stato attuale della democrazia in tutto il mondo. La relazione di quest’anno comprende una particolare attenzione al modo in cui la libertà e la libertà di espressione dei media sono in ogni regione”. E le sorprese non sono mancate. La prima e, forse, la più sorprendente è che i paesi davvero democratici sono solo 19 su un totale di 167 analizzati. Pochi, troppo pochi. Specie se si considera che, tra questi, mancano paesi che da anni si ergono a “paladini della democrazia” in tutto il pianeta. A cominciare dagli Stati Uniti d’America. La loro è una “democrazia difettosa” e per di più con un netto calo rispetto all’ultimo rilevamento. Un peggioramento solo in parte attribuibile al nuovo presidente Donald Trump, dato che il trend mostra un continuo peggioramento dal valore di 8.22 del 2006 al 7,98 dell’ultima analisi. “La democrazia globale è diminuita significativamente nell’ultimo anno”.
Quello degli USA, però, non è un caso isolato: i ricercatori parlano di “recessione democratica” a livello globale, con molti paesi che vedono i principali indici di libertà democratica (libertà individuali, libertà di stampa, etc) in calo. Pochissimi anche i paesi europei che si salvano. Solo 14 su 19 “democratici”. A parte i “soliti” paesi scandinavi, si salvano la Svizzera, la Germania, il Regno Unito, la Spagna e pochi altri. Molti altri invece non sono riusciti ad andare oltre la classificazione di “flawed democracy”, democrazie difettose. A questo gruppo appartengono paesi come Portogallo, Francia, Ungheria (che mostra un calo preoccupante dal 2006 ad oggi), Repubblica Ceca e Romania.

Ma non sono queste le uniche sorprese. Sebbene appartenga al gruppo dei paesi con democrazia difettosa, l’India che ha spuntato un ragguardevole punteggio: 7.23. In calo rispetto allo scorso anno ma che la pone nella fascia più alta dei paesi a democrazia “difettosa”. Un risultato sorprendente migliore di quello assegnato ad altri paesi (a cominciare da molti paesi europei). Frutto forse anche di politiche adottate per i “dalit”, gli intoccabili, i “fuori casta” che nonostante discriminazioni culturali e sociali che hanno radici solide e antiche, stanno recuperando spazi sia socialmente che politicamente.
Per molti paesi, l’esame dei ricercatori evidenzia problemi noti anche se spesso nascosti. Come la situazione della Turchia. Il presidente Erdogan in questi giorni in Italia accolto con grande clamore e sfarzo dalle autorità nazionali e dal Vaticano, in realtà, ha portato il proprio paese ai minimi storici. La sua non è neanche una democrazia difettosa: è una monarchia camuffata. “hybrid regime”. Alla stregua di paesi come la Bolivia, la Nigeria, il Mozambico, o la Tailandia (che dopo il golpe ha avuto un crollo abissale finendo al limite dei “regimi autoritari”).

Anche la Russia ha avuto un crollo negli ultimi anni. E ben peggiore di quello della Turchia: è passata dal 5.02 del 2006 al 3.17 dell’ultimo rapporto. Poco sopra la Cina che, pur governando il mondo dal punto di vista commerciale, non è in grado di camuffare la propria condizione dittatoriale dietro l’alone del comunismo puro (ridotto ormai ad una mera chimera) e della democrazia.
Anche paesi come il Myanmar, che si pensava potessero cambiare radicalmente dopo l’ascesa al potere di Aung San Suu Kyi, già premio Nobel per la Pace (almeno fino a quando non verrà revocato come molte altre onorificenze concesse), dopo aver visto come ha gestito la situazione della minoranza etnica dei Rohingya, ha avuto un calo repentino ed è tornata a 3.83. Il suo paese è nettamente quello con il punteggio più basso di tutti i paesi dell’area.

Ancora più in basso, come prevedibile, ci sono diverse dittature africane. Con in testa (ovvero in fondo alla classifica del Democracy Index) paesi come il Chad, il Congo e la Repubblica Centroafricana: proprio i paesi da dove provengono buona parte dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo. Persone che fuggono non da persecuzioni razziali o da guerre, ma da tirannie, landgrabbing e livelli di povertà e degrado che rendono il loro habitat invivibile. Una situazione che li sbatte in fondo alla classifica del Democracy Index con punteggi prossimi a 1.5.

Per strano che possa sembrare, più o meno allo stesso livello si trovano anche paesi dannatamente ricchi come l’Arabia Saudita: qui il problema non è la povertà, anzi. È che, come hanno dimostrato gli arresti e i processi dei mesi scorsi, il modo di gestirli è poco lontano dalla tirannia. Una tirannia che gli altri paesi, specie quelli occidentali e “sviluppati”, fingono di non vedere pur di accaparrarsi qualche contratto multimiliardario.
Sul fondo della classifica, si trova, neanche a dirlo, la Corea del Nord, con punteggi intorno all’1.08.
E l’Italia? Gran brutti voti anche per il Bel Paese: mentre tutti gli esemplari di Homo politicus si concentrano sulle prossime elezioni, nessuno parla del fatto che, secondo gli esperti, anche in questo caso si parla di una democrazia difettosa. “Nell’ambito di un sistema di voto non testato e fortemente proporzionale, ci si aspetta che le elezioni possano produrre un Parlamento limitato e un governo di coalizione debole incentrato sul centro-destra di Silvio Berlusconi e il centro-sinistra guidato da Matteo Renzi. L’instabilità politica rischia di sconvolgere la fragile ripresa economica dell’Italia”.

Poche parole ma sufficienti per chiarire cosa pensano gli analisti del Bel Paese: stando così le cose, i miglioramenti e a crescita promessi da tutti i leader in corsa per le elezioni resteranno solo pezzi di carta. E il nuovo sistema elettorale (il promo dopo decenni di false promesse) non basterà a togliere all’Italia il marchio di “democrazia difettosa”. E per di più incapace di migliorare: il rating ottenuto nel 2017 (7,98) è lo stesso del 2016 e del 2015, ma anche del 2008. Segno che, nonostante i cambi di governo e di casacca, le promesse, i governi “tecnici”, i “nuovi che avanzano” e i vecchi che ritornano, in realtà, nessuno ha mai fatto granchè per cambiare la situazione. E l’Italia, alla vigilia delle elezioni (le prime dopo quattro governi che hanno gestito il paese con il sostegno di Parlamenti eletti con sistemi elettorali dichiaratamente incostituzionali), si dimostra quello che è: una “democrazia imperfetta”.