Nel processo per la c.d. Trattativa Stato-mafia, in breve, è accaduto questo: che le vite di alcune persone sono state dilaniate; che i loro corpi sono serviti da scrittoio, e il loro sangue da inchiostro. Perché, questo processo, come ha scandito l’Ufficio del Pubblico Ministero di Palermo, avviando la settimana scorsa la requisitoria finale, “riguarda un momento importante della storia del nostro Paese”.
Ecco il punto. Scrivere la storia con i ceppi. O, come nell’Ottobre 2014 volle sublimare il dott. Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto: “rischiarare la storia politica con mezzi coercitivi di cui gli storici non dispongono”.
Rischiarare, certo. Ma non “sine ira, ac studio”, come ammoniva quell’incompetente di Tacito: capace a stento di dedicarsi a sciocchezzuole come l’Impero Romano; no, per una deteriore “episteme palermocentrica” (secondo cui, quello che accade qui è unico nel tempo e nello spazio cosmico), ci vogliono i ceppi.
“Ira”, non solo in latino, era ed è, l’insidioso trasporto che la matrice politica di una ricerca inevitabilmente comporta: trasformando lo studio distaccato in convulsione appassionata.
Il giudizio penale intende solo “elementi di prova”. “Elementi”: per dire della loro primaria, elementare, quasi tattile, natura.
Nell’accusa storico-giudiziaria, invece, le persone, diventano “simboli”; e vengono disincarnate (scannate, in più libera traduzione) nell’atto stesso in cui sono imputate, e penalmente imputate: di una supposta “responsabilità storica”, che è impersonale e indefinibile.
Le prove non sono più “elementari”: immediate, percepibili al senso e al buon senso; su cui la “dichiarazione” (che non è un “elemento”, se non per finzione, per pigrizia giuridica) può agire, al più, a corredo, a conferma (il testimone che “vede” o “ode” un atto in sè compiuto). Ma sono sostituite da una parola che, da libera, si fa anarchica: e proprio quando nulla potrebbe sostenere, è al contrario ammessa a sostenere sè stessa, mediante una “saldatura” imposta, con movenza demiurgica, dal soggetto che accosta le parole (il PM, e poi il giudice, se gli crede).
A questo funambolismo verbale si riduce la coralità dei “riscontri incrociati”, quando la voce non sia solitaria e infìda salmodìa (cioè, uno che, insistendo su una mezza verità, la completa con una mezza menzogna, e conferma sè stesso).
L’accusa, allora, diventa fantasmatica, indossa un velo che pare personale e definito; ma, in quanto cela una sostanza “storica”, impersonale e indefinibile, è, in effetti, inafferrabile. L’accusato prova la presa, e afferra l’aria. La difesa è impossibile; la contesa diventa una prova totale di resistenza: chi non muore, vince.
Massimo Ciancimino e la carica delle sue 101 dichiarazioni, risolte in “avventura processuale”. Giovanni Brusca, plausibile quando parla di acido e telecomandi balistici, appena si volge a farsi interprete storico, stinge in “analisi congetturali di ampio respiro”; e, padrone di abbandonarsi ad una “innegabile ed ingiustificata progressione delle accuse”, dopo tanto procedere, consegue in aula un premio “ch’era follia sperar”, direbbe il poeta: “una sorta di veste di opinionista”.
Il Processo-trattativa, in realtà, è un universo processuale; che è stato un universo congetturale. “La politica: della Prima e della Seconda Repubblica”. La “mancata sorveglianza” del rifugio di Riina. La “mancata cattura” di Provenzano. Le “soffiate” al mafioso Rosario Riccobono.
Dilaniati, questi corpi-scrittoio. Calogero Mannino (il “garante politico” dell’ancièn règime) è sotto indagine o processo, ininterrottamente, da ventiquattro anni. E’ stato definitivamente assolto dall’accusa di concorso in associazione mafiosa; riassolto nel giudizio abbreviato, “a stralcio” da questo stesso processo-Trattativa (con la sentenza che ha offerto, rispettivamente a pagg. 504 e 167, quei ritratti di Ciancimino Jr e di Brusca). Ma è ancora “a disposizione” (pende appello, interposto dalla Procura, of course): soggiogato ad un libero potere che può ridurre un uomo a campo per infinite esercitazioni. Può vangarlo, ararlo, tentarvi ogni sorta di seminagione, e nonostante mai si scorga la malapianta supposta, si prosegue, si riprova, e si riprova, e si riprova.
Lo stesso con il generale Mario Mori: compreso questo, tre processi, già due assoluzioni definitive: si difende da diciotto anni. Analogamente, con il dott. Bruno Contrada: il quale ultimo, anche lui dopo 24 anni (fra processi ed “espiazione senza titolo”), solo da Strasburgo ha potuto ricevere un pò di requie, per le spoglie della sua esistenza. Non c’era il reato. Non c’era la colpa. Non ci doveva essere processo, nè condanna.
E siccome la ricerca storico-giudiziaria imputa “simboli”, e non uomini, quando questi soffrono una pena in carcere, come Marcello Dell’Utri (il “garante politico” della nouvelle vague), non hanno malattie, non hanno sofferenze: ma solo “compatibilità”. Come la vite di un ingranaggio; così, se questa non va bene, eccone subito un’altra. E si ricomincia.
Ma non solo questi corpi; non solo questo sangue.
Paolo Borsellino, si è detto, aveva scoperto la Trattativa; nel timore che ne svelasse la trama, si è aggiunto, principi e ladri, avvinti da un’unica scelleraggine, decretarono “l’accelerazione” della sua Strage. E fu così accelerata, quella “accelerazione”, che i suoi esecutori vaporizzarono nell’inesistenza.
Ci sono, infatti, altri nove uomini che furono condannati ingiustamente in relazione alla strage (sette all’ergastolo). Per sentirsi dire, dopo 25 anni che c’era stato un errore. Loro, con la Strage di Via D’Amelio, non c’entravano. Potete andare. Vite dilaniate, sangue come inchiostro.
E il Tribunale di Palermo, già quattro anni fa, negando che i Carabinieri Mori e Obinu avessero lasciato Provenzano libero di latitare, pure aveva scritto in sentenza: “…l’eventualità che la strage di Via D’Amelio sia stata determinata dall’esigenza di eliminare un ostacolo ad una ‘trattativa’ in corso fra lo Stato e la mafia è rimasta una mera ipotesi..”. (pag. 227).
E c’è un’autentica ricerca storica che potrebbe ignorare le domande, limpide, precise, ragionate, battenti, di Fiammetta Borsellino? . Dov’è Travaglio, dove Santoro? Dove, il prime time? Le docufiction? I doppiaggi e i mimi dei brogliacci telefonici usati come un gatto a nove code?
A Palermo, dunque, sarebbe cominciato un redde rationem: ma quale?
Il Quirinale sotto assedio. Il dott. Loris D’Ambrosio finito dalle pene del sospetto. Due ex Presidenti della Repubblica; ex ministri, un ex Presidente della Corte Costituzionale; un ex Presidente del Senato ed ex Vicepresidente del CSM; e Direttori Generali di ministero: tutti sciorinati come ricchi stendardi di un cupo trionfo. La Repubblica presentata come figlia e nipote di Padri Mascalzoni, anziché di Padri Fondatori.
E dopo un simile incendio, l’ovattamento, i toni dimessi, il servizietto e via.
Gli uomini che hanno subìto questo martirio, hanno già la gratitudine delle coscienze libere. Si sono difesi da reati-fantasma, fronteggiando prove eteree. Ma loro hanno vinto da soli.
Per tutti gli altri, amici e nemici, indifferenti o partecipi, ci sono solo immense macerie: civili, giuridiche e culturali. E sono intatte.